Foggia – Smantellata la quarta mafia nazionale

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Un duro colpo è stato inferto dalla direzione distrettuale e nazionale antimafia alla quarta mafia del Paese che, nel corso degli anni, si è radicata e ben ancorata sul Gargano. Poco prima dell’alba di ieri, gli uomini dei Ros, il raggruppamento operativo speciale dei carabinieri, dello Sco, il Servizio centrale operativo della polizia e dello Scico, il servizio centrale di investigazione sulla criminalità organizzata della guardia di finanza, nell’ambito dell’inchiesta “Mari e Monti”, hanno eseguito 39 ordinanze di custodia cautelare e sequestrato beni per un valore di oltre 10 milioni di euro. Praticamente decapitata l’organizzazione criminale mafiosa del Gargano della potente famiglia dei Li Bergolis, meglio conosciuta negli ambienti della malavita come la “legenda”. Una leggenda quella garganica, è proprio il caso di dire, sfatata dalla capillare operazione portata a termine dall’intelligence antimafia pugliese che è partita da lontano, ovvero, da quando le due maggior organizzazioni mafiose foggiane, quella dei Romito-Ricucci-Lombardi  e quella dei Li Bergolis, quindi anni fa, nel 2009, raggiunsero di fatto, tra loro, un patto di non belligeranza e interferenza nelle attività criminali dei rispettivi clan. Da allora a oggi, la pericolosa malavita foggiana si è resa responsabile di ventuno omicidi, diciotto tentati omicidi, decine di estorsioni, diverse rapine furti aggravati, ricettazioni e trasferimenti fraudolenti di valori per auto finanziare, insieme alle attività di spaccio, le attività criminali molte delle quali in fase di imminente pianificazione. Un’operazione,  quella di ieri mattina, che vede contestata, per venticinque indagati, l’associazione mafiosa, due associazioni a delinquere, una per undici indagati e l’altra a carico di dieci. Una operazione che è stato possibile portare a compimento oltre che al complicatissimo e capillare sistema di 134 intercettazioni ambientali e sedici telefoniche, di ventidue luoghi sottoposti a videosorveglianza grazie, anche, alle preziose rivelazioni fornite dai collaboratori di giustizia. In questo contesto, particolarmente preziose, sono state le dichiarazioni rese dai due latitanti, Marco Raduano e dal suo braccio destro Gianluigi Troiano. Il primo evaso da un carcere di massima sicurezza sardo il 23 febbraio dell’anno scorso e l’altro latitante dall’11 dicembre del 2021. A stanare all’estero, in Spagna e Francia, i due pezzi da novanta della mala garganica, poi diventati collaboratori di giustizia, furono, grazie a una operazione internazionale di polizia gli uomini del Ros comandati dal generale Vincenzo Molinese che attraverso un’azione coordinata dal responsabile anticrimine del Ros di Bari, tenente colonnello Massimiliano Corradetti, riuscirono ad assicurare alla giustizia i due super latitanti. Sono stati proprio i contributi di questi ultimi due, insieme agli altri sedici collaboratori di giustizia che hanno reso ben trentatré deposizioni verbalizzate in 3580 pagine, raccolte negli anni da investigatori e inquirenti a tracciare la mappa delle alleanze e delle attività della criminalità mafiosa dauna. Una attività, quella della mala foggiana che, nel corso degli anni, oltre a diventare sempre più recrudescente, si è evoluta passando dalle attività legate alla ruralità fino alla gestione di attività economiche intestate a prestanomi, aziende di ricettività turistiche e di spaccio di sostanze stupefacenti provenienti dall’Olanda e dall’Albania. Una criminalità che riscuoteva anche il rispetto di ‘ndrangheta e camorra, si legge negli atti. Delle ordinanze di custodia cautelare se ne registrano 37 in carcere, tra cui una donna e due ai domiciliari di cui una donna. Tre ordini di detenzione in carcere con le restrizioni di massima sicurezza, ai sensi dell’articolo 41bis, sono state firmate, nella notte, poche ore prima di essere eseguite dal ministro di Grazie e Giustizia, Carlo Norbio a carico del presunto boss reggente Enzo Miucci, del suo braccio destro, Matteo Pettinicchio e del referente viestano, Claudio Iannoli. Una misura, quest’ultima, resasi necessaria dopo che le lunghe indagini hanno fatto emergere come molti elementi di spicco della malavita foggiana, pur stando in carcere, riuscivano a dettare legge all’interno dei loro sodalizi criminali di provenienza, imponendo strategie e operazioni da effettuare. A presentare l’operazione, insieme al procuratore distrettuale antimafia, Roberto Rossi e al suo aggiunto Francesco Giannelli, insieme ai vari sostituti procuratori impegnati nell’inchiesta, è arrivato in Puglia il procuratore nazionale antimafia  Giovanni Melillo che riferendosi ai clan colpiti dalla scure della giustizia li ha definiti “una realtà di straordinaria pericolosità nella quale, alla dimensione violenta, vessatoria e intimidatoria del gruppo si associa una capacità di operare nella modernità, dal traffico di stupefacenti al riciclaggio”. L’operazione “Mari e Monti”, ha fatto emergere uno spaccato della malavita foggiana di tutto rispetto nell’ambito delle logiche mafiose nazionali. Gli inquirenti, oltre ad aver sequestrato, nel tempo, ai sodalizi undici fucili, nove pistole, tre bombe, dieci chili di materiale esplosivo 636 munizioni, quasi mille e settecento chili di marijuana, un chilo e trecento grammi di cocaina, un chilo di eroina e tre chili di hashish, nel corso delle perquisizioni hanno rinvenuto tutta una serie di lettere, spedite con le doppie buste e a destinatari diversi da quelli reali che facevano da intermediari della corrispondenza. Con le lettere anche gli imputati detenuti riuscivano a impartire ed eseguire ordini che provenivano dai vertici clan. Le lettere venivano spedite in carcere e dal a e da esponenti del sodalizio che non essendo accusati di associazione mafiosa non erano sottoposti al controllo della corrispondenza. Per questa ragione, per esempio, in questa operazione a “Renzino”, ovvero Mucci Enzo che essendo detenuto per reati connessi al mondo dello spaccio riusciva ad avere lettere in carcere e a farle martire senza che queste venissero lettere dall’amministrazione penitenziaria. Dall’esame quella corrispondenza è emerso tutto uno spaccato di rapporti e i clan avevano e gestivano pur stando dietro le sbarre. Nella lettera che il 1° maggio del 2020, in pieno periodo Covid, Emiliano Francavilla, detenuto nel carcere di Tolmezzo scriveva al nuovo reggente Enzo Miucci, in carcere a Terni si legge, con il chiaro riferimento alla loro crudeltà “saremo noi il vero virus quando usciremo … ho tanto da sfogare” e, poi, in un altro passaggio della lettera auspica la fine della sua detenzione dicendo: “potrei uscire per fine anno a detenzione domiciliare. Ti aggiornerò nelle prossime lettere”. In un altro passaggio il mittente scrive al destinatario, assicurandolo su una sua precisa richiesta: “Per quanto riguarda quel cesso che stava con il figlio di Franchino stai tranquillo perché ancora prima che mi scrivevi ciò che ho letto sulla tua lettera, avevo già capito tutto quando il padre era qui e mi conosci che con il dolce me li porto dove voglio! Lui quando era qui mi spiegò qualcosa a modo suo e voleva che io mettessi la buona parola con te, ma io gli dissi che non avevo molta confidenza con te”. In un altro passaggio della lettera la rassicurazione di Francavilla a Miucci quando gli scrive: “stai tranquillo, perché ho già parlato con Franchino ed è tutto Ok”. Infine, la dichiarazione di fratellanza, quando in un  altro tratto della missiva si legge: “per me il problema tuo è mio. Sei mio fratello in tutto. Se io dovessi uscire provvederò a far maturare i frutti marci. Stai tranquillo! Fratello mio, non dimenticare mai che io con te andrò anche all’inferno a dare la scotolata! Sai che sei la mia vita. Sei sempre nei miei pensieri e per te ci saremo sempre e ovunque.” Dalla corrispondenza carceraria emergono anche le preoccupazioni per come vanno le cose fuori, come scriveva Matteo Pettinicchio, dal carcere di Benevento, verosimilmente il 18 dicembre del 2022 a Enzo Miucci detenuto, in quel periodo, nel carcere di Palermo: “Poi fratello mio come sai o credo fuori non si capisce niente e stanno tutti montati di testa … booo io non sto a capire più niente”. Corrispondenza, questa, che porta la procura diretta da Roberto Rossi a sostenere che “il sodalizio mafioso garganico si caratterizza per la sua forte connotazione familistica e per un radicamento territoriale quanto mai pervasivo, elementi che hanno, nel tempo, assicurato tenuta omertosa, saldezza del vincolo associativo e generalizzata capacità di condizionamento ambientale”.

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