Trump e Harris per due americhe contrapposte: tra pragmatismo sovranista opposto ad una America protettore morale del pianeta

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Oggi, 5 novembre, l’America si trova a un bivio da cui potrebbe dipendere il futuro dell’intero Occidente. Da un lato c’è Donald Trump, con il suo “Make America Great Again”, un messaggio chiaro: tornare a un pragmatismo sovranista, fatto di interessi nazionali, frontiere sicure, e una politica estera che risponde prima agli americani. Dall’altro c’è Kamala Harris, portavoce di una visione alternativa che guarda al mondo come a una grande comunità, unita nelle crisi e nelle soluzioni. Questa competizione è molto più di una battaglia elettorale. Trump e Harris rappresentano due filosofie radicalmente opposte sul ruolo degli Stati Uniti nello scacchiere mondiale.

Trump, con il suo «America First», incarna la filosofia di un’America stanca di guerre senza fine e compromessi internazionali che arricchiscono gli altri. L’approccio di Trump è il realismo, con la convinzione che gli Stati Uniti debbano guardare prima a se stessi, ai loro lavoratori, alla loro sicurezza. Sotto la sua amministrazione, il ritiro da accordi multilaterali considerati poco vantaggiosi è stato visto come un modo di riportare il focus sulle questioni domestiche, per restituire alla classe media americana ciò che, secondo lui, gli accordi globali hanno tolto.

Harris si pone come il ritorno alla normalità pre-Trump: multilaterale, aperta, pervasa da una fiducia quasi ingenua nella cooperazione internazionale. L’idea è che l’America, rinunciando al suo ruolo di arbitro assoluto, possa fare da capitano gentile in un mondo che va verso soluzioni condivise. Ma non è forse un’illusione pensare che Paesi come la Cina, la Russia, o persino l’Europa, siano pronti a fare concessioni o a seguire una leadership americana senza un tornaconto?

Harris, con la sua esperienza internazionale limitata, ha una visione ingenua che, pur affascinante, ignora le insidie di un sistema globale dove ogni potenza gioca per sé e dove gli alleati sono alleati finché “va tutto bene”. Pensare che basti tornare all’Accordo di Parigi o rafforzare le relazioni con l’Onu per risolvere questioni complesse come il cambiamento climatico, la stabilità nel Medio Oriente o la sicurezza dei confini, è una visione fortemente limitata.

L’approccio di Trump, che guarda agli accordi globali come strumenti utili solo quando favoriscono direttamente l’America, può sembrare cinico. Ma, a conti fatti, è un realismo crudo che risuona con milioni di americani che sentono di aver perso terreno.

Trump e Harris offrono due visioni alternative: una focalizzata sulla tutela degli americani, l’altra su un’America che si fa ancora guida e protettore morale del pianeta.

Non facciamoci troppe illusioni sulla possibilità di conoscere il nome del prossimo o della prossima presidente degli Stati Uniti nella notte tra il 5 e il 6 novembre oppure, al più tardi, nella giornata successiva. I pessimisti sui tempi pensano soprattutto all’opera dilatoria della schiera di avvocati già assoldati da Donald Trump per contestare l’eventuale vittoria di Kamala Harris. Ma, al di là delle tattiche del tycoon, sono le procedure elettorali che di per se stesse inducono a ipotizzare ritardi nella diffusione del risultato finale della corsa per la Casa Bianca.

I sondaggi prevedono un testa a testa, tra Harris e Trump nei sette swing States (Arizona, Carolina del Nord, Georgia, Michigan, Nevada, Pennsylvania e Wisconsin), gli Stati in bilico – quelli caratterizzati da un elettorato fluido e da repentini cambiamenti della maggioranza tra una consultazione e l’altra – che di fatto decideranno l’assegnazione della Casa Bianca.

A causa del previsto divario minimo tra i candidati, è facilmente ipotizzabile che il conteggio dei voti espressi in presenza ai seggi non sarà di per se stesso dirimente e bisognerà aspettare lo spoglio dei voti inviati per posta perché questi ultimi potrebbero finire per fare la differenza.

Qui iniziano i problemi. In cinque dei sette Stati incerti le schede mandate per corrispondenza, affinché siano considerate valide, devono pervenire agli uffici elettorali incaricati di contarle entro il giorno in cui si chiudono le urne per chi vota in presenza. Invece, il Michigan concede altri sei giorni per farle giungere a destinazione nel caso di quelle spedite dal personale militare o da civili temporaneamente all’estero, mentre il Nevada le accetta fino a tutto il quarto giorno successivo alla chiusura dei seggi, a prescindere da chi sia il mittente, a condizione che il timbro postale riporti al più tardi la data del 5 novembre.

Inoltre, cinque swing States accordano agli elettori alcuni giorni per rettificare eventuali problemi riguardanti la corrispondenza tra la firma apposta sul plico contenente la busta con la scheda elettorale anonima e quella depositata presso uffici elettorali delle contee di residenza al momento dell’iscrizione nelle liste dei votanti: una settimana in Arizona, sei giorni in Nevada, tre in Georgia e Michigan, un tempo a discrezione dei singoli uffici elettorali nella Carolina del Nord.

Il divario contenuto tra i candidati potrà provocare ulteriori ritardi nella comunicazione dei risultati.

La normativa dell’Arizona e della Pennsylvania stabilisce un riconteggio automatico delle schede se il margine tra i contendenti è inferiore o pari allo 0,5%. Lo stesso prevede il Michigan se i candidati sono separati da meno di 2.000 voti, ma chi è stato battuto può domandare una verifica a prescindere dalle dimensioni della sua sconfitta. La legislazione elettorale della Georgia e della Carolina del Nord non contempla automatismi, ma concede a richiesta un secondo conteggio se a separare i candidati sono meno di 10.000 voti o lo 0,5% delle schede valide. Il Wisconsin innalza la condizione per la verifica a un divario non superiore all’1%. Nel Nevada è ammesso un accertamento sui voti se è il candidato ad accollarsene l’onere finanziario. Per dare un’idea della possibile dilatazione dei tempi, il riconteggio manuale dei voti delle elezioni presidenziali del 2020, deciso dalla Georgia l’11 novembre perché Joe Biden aveva ricevuto il 49,47% e Donald Trump il 49,24%, fu completato il 19 del mese.

Le implicazioni dell’elezione indiretta

L’elezione del presidente degli Stati Uniti è indiretta. Il voto del 5 novembre formalmente serve soltanto ad assegnare i grandi elettori di ciascuno Stato nel collegio elettorale che sceglie il presidente.

I grandi elettori si presentano aggregati in liste bloccate e contrapposte. Ciascuna è collegata a uno dei diversi candidati alla Casa Bianca e contiene un numero di aspiranti grandi elettori pari a quelli in palio nello Stato in cui si vota.

Il collegamento consiste nell’impegno formale dei componenti della lista a votare per uno specifico candidato alla presidenza. Non a caso, i cittadini che si recano alle urne o votano per posta sulla scheda elettorale trovano indicati non più i diversi elenchi dei grandi elettori, come era avvenuto per gran parte dell’Ottocento, ma solo i nominativi dei candidati alla presidenza a cui ogni lista è collegata.

Pertanto, una volta che saranno attribuiti i grandi elettori con il voto del 5 novembre, dovrebbe essere chiaro chi diventerà presidente, senza bisogno di aspettare che il collegio elettorale lo nomini in maniera ufficiale.

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