Trump, il valzer delle nomine e la procedura di ratifiche del Senato

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Donald Trump, in preparazione alla sua presidenza, ha annunciato la nomina di Tulsi Gabbard come candidata al ruolo di Direttore dell’Intelligence Nazionale (DNI) degli Stati Uniti. Questo incarico, creato dopo l’11 settembre per migliorare il coordinamento tra agenzie come la CIA e la NSA, è cruciale per la sicurezza nazionale.

La nomina di Gabbard ha generato polemiche tra esperti e osservatori. Sebbene abbia servito come deputata rappresentando le Hawaii e prestato servizio nelle riserve dell’Esercito USA, le sue competenze in materia di intelligence vengono ritenute insufficienti. Molti analisti sottolineano che il ruolo richiede una vasta esperienza nel settore dell’intelligence e nella gestione di agenzie, capacità che non risultano nel curriculum di Gabbard.

Inoltre, le sue posizioni sulla politica estera hanno attirato critiche. Nota per promuovere soluzioni diplomatiche anche con leader controversi, Gabbard ha suscitato perplessità per un approccio ritenuto a volte troppo accomodante. Il suo percorso politico, che l’ha vista passare dal Partito Democratico al Partito Repubblicano, e le sue dichiarazioni su temi internazionali sono percepiti come indicatori di un’ideologia non convenzionale.

Gli esperti evidenziano i rischi potenziali della nomina, ritenendo che le sue posizioni potrebbero minare la capacità del DNI di proteggere gli Stati Uniti da minacce globali. Altri analisti associano le sue opinioni alla cosiddetta “politica a ferro di cavallo”, che unisce visioni politiche agli estremi dello spettro ideologico.

La candidatura di Tulsi Gabbard sarà valutata attentamente dal Senato, che dovrà decidere se la sua leadership sia compatibile con un ruolo così strategico per la sicurezza nazionale. La decisione sarà cruciale per definire l’approccio americano alla gestione delle minacce globali nei prossimi anni.

Tulsi Gabbard, un’ex deputata federale democratica delle Hawaii che ha più volte espresso un orientamento favorevole al dittatore siriano Bashar al-Assad nonché simpatie per il regime di Vladimir Putin in forma così esplicita e acritica che è stata tacciata di veicolare propaganda filorussa negli Stati Uniti.

La procedura di ratifica

I repubblicani controllano 53 seggi su 100 nel Senato che si insedierà il prossimo 3 gennaio, ma qualche membro del partito nel ramo alto del Congresso ha cominciato a prendere le distanze da alcune scelte di Trump per la guida di dicasteri chiave dell’amministrazione federale che entrerà in carica il 20 gennaio 2025.

L’opposizione di alcuni senatori repubblicani ai prescelti da Trump non comporta un dissenso ininfluente. La sezione 2 dell’articolo II della Costituzione stabilisce che il Senato ha il potere di ratificare o di rigettare le nomine dei titolari dei dipartimenti (la versione statunitense dei ministeri) designati dal presidente.

I soli componenti del governo esentati da questa procedura di conferma sono il vicepresidente, perché la sua è una carica elettiva, e il capo di gabinetto, in quanto la scelta del coordinatore dello staff della Casa Bianca è lasciato alla sola discrezione presidente.

In origine, il presidente annunciava le proprie nomine solo dopo il proprio insediamento formale. Dal secondo dopoguerra, invece, le designazioni cominciarono a essere fatte subito dopo le elezioni e il Senato incominciava le audizioni per la conferma all’apertura della nuova legislatura il 3 gennaio.

In questo modo, molto spesso il giorno del giuramento del neopresidente, parte dei componenti del governo poteva già esercitare le proprie funzioni. Tuttavia, con la crescita della polarizzazione del Senato e in seguito all’incremento della conflittualità tra i partiti, i tempi di conferma si sono allungati.

Per esempio, al momento dell’ingresso di George H.W. Bush alla Casa Bianca il 20 gennaio 1989, il Senato aveva ratificatole le nomine di quasi metà del suo esecutivo, cioè sette segretari di dipartimento su quindici. Invece, solo due dei ventisei componenti del governo di Trump aveva ottenuto la conferma del Senato prima del 20 gennaio 2017 e appena uno dei membri del cabinet di Joe Biden aveva ricevuto il benestare antecedentemente al 20 gennaio 2021.

La bocciatura di una nomina presidenziale – soprattutto se effettuata all’inizio dell’amministrazione, quando l’inquilino della Casa Bianca è fresco di vittoria elettorale, cioè è recente il conferimento del mandato popolare – è un evento inconsueto, ma non inedito. In tutta la storia degli Stati Uniti, dal 1789 a oggi, sono stati nove i candidati selezionati dal presidente che il Senato si è rifiutato di confermare.

La procedura di ratifica

Trump ha compiuto altre scelte opinabili. Ha affidato il dicastero della Sanità Robert F. Kennedy Jr., noto per la sua posizione no-vax anche all’apice della pandemia del covid-19 e per la sua convinzione – priva di riscontri scientifici – che i vaccini avrebbero come effetti collaterali l’autismo, l’iperattività e lo sviluppo di allergie.

Il senatore Bill Cassidy della Louisiana, che è un medico, ha ripetutamente liquidato come “fake news” le affermazioni di Kennedy sui vaccini. A suscitare dubbi sulla opportunità della scelta di Gabbard, invece, è stata la senatrice Joni Ernst dello Iowa. Sembra pure improbabile che l’ex capogruppo repubblicano al Senato, Mitch McConnell del Kentucky, che si è speso nella passata legislatura per l’invio di aiuti militari all’Ucraina, possa ratificare a cuor leggero la nomina di Gabbard.

Il senatore Thom Tillis della Carolina del Nord è convinto che il fatto di essere stato un ufficiale della guardia nazionale del Minnesota non costituisca un’esperienza sufficiente per attestare la competenza di Hegseth a guidare il Pentagono, un dipartimento con un bilancio annuale che supera gli 800 miliardi di dollari e con un personale complessivo di quasi tre milioni di dipendenti, di cui poco meno di un milione e mezzo di militari in servizio attivo, che lo rende il dicastero con il maggior numero di addetti.

Nell’ipotesi, molto probabile, che i quarantacinque senatori democratici votino compatti contro le designazioni più controverse di Trump e che i due senatori indipendenti si schierino con loro, sarebbe sufficiente che quattro repubblicani passassero dalla loro parte per bocciare, se non tutti, almeno alcuni dei candidati maggiormente discussi di The Donald. Del resto, ancor prima che Gaetz decidesse di rinunciare a dirigere il dipartimento di Giustizia, Trump non aveva avuto un buon rapporto con il Senato nel campo delle nomine di governo al tempo del suo primo mandato.

La sua scelta originaria per il dicastero del Lavoro, Andrew Puzder, nominato il 6 dicembre 2016, rinunciò all’incarico il successivo 15 febbraio, quando si rese conto che il Senato non lo avrebbe confermato a causa di voci che gli attribuivano molestie sessuali verso dipendenti e il mancato pagamento dei contributi previdenziali a una domestica che sarebbe stata perfino una immigrata irregolare.

Di fronte a analoghi impasse nel processo di ratifica o allo smacco politico di una bocciatura da parte del Senato, si ritirarono anche altri due potenziali membri del cabinet di Trump: Ronny Jackson, proposto nel 2018 come segretario del dipartimento per gli Affari dei Veterani, e Patrick M. Shanahan, designato nello stesso anno alla guida del dicastero della Difesa. Nel caso di John Ratcliffe, scelto come direttore dell’intelligence Nazionale, Trump dovette ricorrere a un doppio tentativo. Nel 2019, incerto sul fatto che la maggioranza dei senatori avrebbe confermato la nomina, rinunciò a formalizzare la designazione dopo soli quattro giorni dall’annuncio che Ratcliffe era il suo candidato. Tornò a designarlo per la stessa carica l’anno successivo e, questa volta, ottenne la conferma del Senato anche se furono necessari quasi tre mesi, dal 28 febbraio al 21 maggio, per il voto di ratifica.

Il ventaglio delle opzioni di Trump

Oggi Trump potrebbe arrivare a una prova di forza con il Senato, correndo il rischio di finire sconfitto su qualche nomina oppure avvalersi di un artificio che consiste nel formalizzare le designazioni in un periodo in cui il Senato non è in seduta. In questo caso, i candidati del tycoon entrerebbero subito in carica come facenti funzioni di segretari di dipartimento e direttore dell’Intelligence Nazionale e ricoprirebbero tale ruolo fino alla successiva convocazione del Senato.

A quel punto, posti di fronte al fatto compiuto, i senatori repubblicani avrebbero maggiore difficoltà a pronunciarsi contro le scelte del proprio presidente e, nell’ipotesi di bocciature, Trump potrebbe aspettare la conclusione della sessione per riproporre i suoi candidati come facenti funzioni, ripetendo potenzialmente questa tattica all’infinito.

Però, è più probabile che Trump ricorra a una terza via: indurre a fare un passo indietro i candidati privi di una maggioranza per essere confermati e sostituirli con personaggi meno controversi e divisivi, come è successo con l’ex deputato, rimpiazzato con Pam Bondi alla testa del dipartimento di Giustizia. Bondi, però, rischia di ritrovarsi nella condizione di Henry Stanbery perché ha fatto parte del team di difensori di Trump al tempo del suo primo impeachment, quello sul cosiddetto Ucrainagate, risalente al periodo tra la fine del 2019 e l’inizio del 2020.

Del resto, non sembra che Trump abbia particolarmente a cuore la compagine governativa. Pare, infatti, volto a un depotenziamento delle istituzioni dell’amministrazione federale formale. A quest’ultima, infatti, sta affiancando organismi ufficialmente consultivi, i cui componenti non sono pertanto soggetti alla ratifica del Senato, ma che finiscono per svolgere funzioni di fatto operative.

L’esempio paradigmatico è quello del Department of Government Efficiency (DOGE), il dipartimento dell’Efficienza di Governo, affidato a Elon Musk e Vivek Ramaswamy. Malgrado la sua denominazione, il DOGE non è un vero dicastero. Affinché lo diventasse, sarebbe necessaria una legge istitutiva del Congresso, un provvedimento legislativo che finora nessuno ha proposto. Nondimeno, il DOGE ha il compito di proporre tagli al bilancio federale fino a 3.000 miliardi di dollari e spinge abrogare il dipartimento dell’Istruzione, non certo un ruolo secondario per un organo che agisce al di fuori dell’apparato del governo e sfugge a controlli, verifiche e supervisione del Congresso.

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