Giorgia Meloni, premier italiano e leader di Fratelli d’Italia, ha recentemente infiammato la platea di Atreju con un intervento carico di emozione e determinazione. Durante il suo discorso, Meloni ha rivendicato con orgoglio i risultati ottenuti dal suo governo, sottolineando i progressi in vari settori chiave, dalla gestione dell’immigrazione alla politica economica. La premier ha messo in evidenza come le sue scelte abbiano portato a un miglioramento della situazione economica del paese, nonostante le sfide globali.
Un momento significativo del suo intervento è stata l’annuncio delle dimissioni dalla presidenza dei Conservatori europei. Questa decisione, secondo Meloni, è stata presa per concentrarsi maggiormente sulle questioni italiane e per affrontare le sfide interne con maggiore efficacia. La premier ha spiegato che, sebbene la sua esperienza a livello europeo sia stata preziosa, è giunto il momento di dedicarsi completamente alla sua nazione, un passo che ha suscitato reazioni contrastanti tra i suoi sostenitori e i critici.
Attesissimo era il discorso di Mateusz Morawiecki, l’ex primo ministro polacco e leader del Pis, che Meloni – annunciando le sue dimissioni da leader dei conservatori – ha incoronato come suo successore. Una mossa abilissima, in cui forse si intuisce anche un certo influsso fittiano. Il Pis è un partito fondamentale per l’Ecr e per gli equilibri nell’Europarlamento. Ma ha come avversario interno un uomo del Ppe come Tusk e questo ovviamente produce qualche malumore, vista la oramai sempre più stretta assonanza tra Ppe di Weber ed Ecr di Meloni. Così Giorgia – cedendo il suo posto a Morawiecki – blinda dentro l’Ecr il partito conservatore polacco, garantendosi più tempo per limare l’alleanza con i popolari senza rischiare defezioni a Est. Del resto non è un mistero che i “patrioti” corteggino da tempo il partito di Diritto e Giustizia. Ma Meloni sa bene che Morawiecki e il suo partito – che esprime ancora il presidente della Repubblica in Polonia – sono forze di governo, poco inclini all’essere marginalizzati come attualmente accade per i patrioti.
Meloni è stata un fiume in piena e ha elencato i successi del suo governo: dall’essere il primo esecutivo sotto cui il Sud è diventato la locomotiva d’Italia superando il PIL del Nord alle misure sulla sanità, passando per le periferie come Caivano bonificate dalla criminalità e restituite ai cittadini. Stesso orgoglio con cui ha rivendicato il contrasto all’immigrazione irregolare e la strategia dei contestatissimi centri in Albania, ribandendo – casomai qualcuno si fosse illuso – che i centri funzioneranno “dovessi – ha giurato – lavorarci ogni notte fino alla fine del governo”.
Per la presidente del Consiglio le critiche dell’ex premier Prodi sono una medaglia, vista l’attitudine dell’ex leader del centrosinistra a essere sempre stato prono al potere dominante e poco incline alla tutela dell’interesse italiano e delle aziende che ha gestito negli anni della Prima Repubblica. È andata giù dura anche su Elly Schlein che sul caso Stellantis tace, così come su Landini che fa gli scioperi per la “sinistra” e non per i lavoratori, sottolineando che oggi è la destra che si batte per i diritti dei lavoratori. La destra che unisce la nazione contro la sinistra sempre più rinchiusa nei suoi salotti autoreferenziali: questo è il messaggio che il pubblico della kermesse sposa in pieno, visto il profluvio di applausi scroscianti a ogni acuto della premier. Meloni rivendica il suo sguardo fuori dai confini, facendo capire quanto la sua strategia sia in linea con il verbo degasperiano sulla centralità della politica estera come primo strumento di politica interna.
Meloni ha accusato i partiti avversari di non avere una visione chiara per il futuro dell’Italia e di essere più interessati a sabotare il governo piuttosto che a proporre soluzioni costruttive. Ha invitato i suoi oppositori a unirsi a lei per affrontare le sfide comuni, ma ha anche ribadito la determinazione del suo governo a proseguire sulla strada intrapresa, senza farsi intimidire dalle critiche. Questo approccio diretto ha reso il suo discorso particolarmente incisivo e ha catturato l’attenzione dei media e del pubblico.
La premier sul palco di Atreju ha gridato così forte che le si è abbassata la voce, al punto da non aver potuto registrare il videomessaggio per gli Stati generali della Diplomazia. Lo ha spiegato alla Farnesina il ministro Antonio Tajani prima della lettura del testo che la presidente del Consiglio ha scritto per gli ambasciatori e le ambasciatrici: «Ci aspetta un anno molto impegnativo, tutto intorno a noi sembra cambiare… L’Italia deve dimostrare di essere all’altezza del compito che la storia ci ha assegnato». Quanto a lei, si dice «pronta a fare la mia parte» anche nella nuova fase geopolitica che si aprirà a gennaio con l’arrivo di Donald Trump.
La premier volerà a Bruxelles per il vertice Ue-Balcani e per il Consiglio europeo, il primo presieduto da Antonio Costa. La leader di FdI, che torna in Europa forte dei complimenti di Trump e di Milei, proverà a mettere i primi mattoni di quel «ponte» di mediazione tra Bruxelles e Casa Bianca in vista dell’arrivo del tycoon. Meloni sarebbe ben felice di volare alla festa di insediamento il 20 gennaio, ma l’invito ufficiale non è ancora arrivato perché tradizionalmente il protocollo non prevede la presenza di capi di Stato e di governo.
Giorgia Meloni ha, ovviamente, l’intenzione di approfittare politicamente della crisi di Macron in Francia e della caduta di Scholz in Germania per consolidare ancor più la sua leadership europea e il ritrovato asse con Ursula von der Leyen, che ha contribuito a spostare a destra il timone dell’Unione. La presidente della Commissione lavora a una lettera sull’immigrazione che potrebbe rivelarsi un assist per la battaglia di Meloni contro i giudici che hanno di fatto stoppato i suoi centri in Albania.
La presidente del Consiglio confermerà che l’Italia è «in prima linea» per un immediato cessate il fuoco a Gaza, per il rilascio degli ostaggi israeliani e per la stabilizzazione del Medio Oriente, «attraverso una soluzione a due Stati».
Sull’Ucraina la sua postura è meno appassionata di un tempo, ma la linea non cambia. Resta il «convinto sostegno alla legittima difesa» del Paese aggredito da Putin e resta il no all’utilizzo delle armi occidentali in territorio russo. A Bruxelles potrebbe tenersi anche un vertice a cui dovrebbero partecipare Zelensky, Rutte, Macron, Scholz, Tusk, Starmer, von der Leyen, Costa e Meloni, ma nell’agenda della presidenza del Consiglio l’appuntamento ancora non c’è. I leader dovrebbero discutere anche della possibilità di inviare in Ucraina contingenti militari Ue, qualora la speranza di un cessate il fuoco dovesse concretizzarsi. Sabato e domenica Meloni volerà a Saariselka, in Lapponia, per il vertice Nord-Sud.