L’Italia non sostiene la Cpi all’Onu. Von der Leyen sposa la linea italiana: dialogo con gli Usa

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Le sanzioni decise dagli Stati Uniti contro la Corte Penale Internazionale (Cpi) hanno innescato una mobilitazione globale. Ben 79 Paesi delle Nazioni Unite (su 125) hanno firmato una dichiarazione congiunta per condannare il provvedimento voluto da Donald Trump, che prevede il congelamento dei beni dei giudici del tribunale dell’Aja e il divieto di ingresso negli Usa, esteso persino ai loro familiari. Tra i firmatari ci sono quasi tutti i principali Paesi europei, ma a spiccare, questa volta, è l’assenza dell’Italia. Roma ha scelto di non firmare, accodandosi di fatto alla linea americana.
Le sanzioni americane sono state introdotte come risposta al mandato d’arresto emesso dalla Cpi contro il premier israeliano Benjamin Netanyahu e il suo ex ministro della Difesa Yoav Gallant. La Corte li accusa di crimini di guerra a Gaza, insieme al leader di Hamas Mohammed Deif. Secondo un documento trapelato dalla Casa Bianca, questo mandato sarebbe stato considerato da Trump una “vergognosa equiparazione morale” tra Israele e Hamas. Le sanzioni non solo colpiscono direttamente i giudici della Corte, ma potrebbero mettere a rischio le indagini attualmente in corso, compromettendo il funzionamento del sistema giudiziario internazionale.

In risposta, 79 Paesi hanno sottoscritto una dichiarazione che definisce la Cpi un’istituzione essenziale per garantire la responsabilità per i crimini più gravi e per tutelare le vittime. La lettera avverte che le sanzioni “comprometterebbero gravemente tutte le situazioni attualmente sotto inchiesta”, oltre a “minacciare lo stato di diritto internazionale” e “aumentare il rischio di impunità per i crimini più gravi”.

L’Europa, come sottolineato dalla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, “sarà sempre al fianco della giustizia e del diritto internazionale”. Ma, a quanto pare, con qualche distinguo eccellente che oggi, include l’Italia.

La mancata adesione dell’Italia alla dichiarazione congiunta sorprende e fa discutere. Il nostro Paese, che fu tra i promotori della Corte Penale Internazionale con il Trattato di Roma del 1998, sembra oggi voltarle le spalle, evitando di condannare apertamente le decisioni di Washington.
Pochi giorni fa, la procura di Roma ha aperto un’inchiesta sul mancato arresto di Osama Almasri, un torturatore libico ricercato proprio dalla Cpi. Questo ha portato all’iscrizione nel registro degli indagati di figure di spicco del governo italiano, tra cui la premier Giorgia Meloni, i ministri Matteo Piantedosi e Carlo Nordio e il sottosegretario Alfredo Mantovano. Come se non bastasse, è emersa una denuncia presentata alla Cpi contro l’Italia da parte di un rifugiato libico per violazioni dei diritti umani.

Il governo italiano, però, non si è limitato a evitare la firma della lettera: giovedì, i vice-premier Antonio Tajani e Matteo Salvini hanno attaccato direttamente la Corte, auspicando un’inchiesta contro i suoi giudici. Questo atteggiamento ha sollevato critiche da parte dell’opposizione, che ha accusato il governo di danneggiare gravemente l’immagine della nazione e di compromettere i valori tradizionali italiani.

«È una vergogna che l’Italia abbia deciso di non firmare la difesa della Corte Penale internazionale». A dirlo è la segretaria del Partito democratico, Elly Schlein, durante un evento di +Europa, riferendosi alla decisione del governo di non apporre la firma sul documento redatto per difendere la Cpi dall’iniziativa di Donald Trump di imporre sanzioni ai giudici dell’Aja.

Il governo, per ora, non ha chiarito il perché non abbia firmato la dichiarazione in difesa della Cpi. E’ stato lo stesso presidente della Repubblica, Sergio Mattarella a dare una stoccata al governo. Durante la cerimonia di inaugurazione della “Prima Capitale europea della cultura transfrontaliera GO 2025!” – ha parlato di «un mondo caratterizzato da crescenti tensioni e conflitti» e, soprattutto, «dall’abbandono della cooperazione come elemento fondante della vita internazionale».

Con abituale diplomazia, la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen, ha parlato della futura Europa: in conferenza stampa da Vilnius, in diretta social, in un’occasione storica – la sincronizzazione delle reti elettriche degli Stati Baltici alla rete europea e il distacco definitivo dalla rete russa – la von der Leyen ha toccato le corde dell’orgoglio e rilanciato sui temi tanto cari al governo Meloni: “E’ ora di prendere la nostra sicurezza e difesa nelle nostre mani ma la Ue è pronta per un dialogo robusto ma costruttivo con gli Stati Uniti d’America tra crescenti incertezze”.

Sicurezza, anche sui confini, e dialogo con gli Usa, senza andare allo scontro sui dazi. Appoggio pieno all’Ucraina, distacco totale dalla Russia. Nei palazzi romani qualcuno avrà apprezzato. Il nostro alleato di lunga data, gli Stati Uniti, ha stabilito una nuova agenda. L’Europa è pronta a un dialogo robusto, ma costruttivo in mezzo a incertezze crescenti. Stiamo trovando potenziali difficoltà, ma siamo pronti”, ha spiegato la presidente della Commissione Europea. “L’Europa rimane dedita ai suoi impegni e partnership globali. E questo è soprattutto vero per un partner molto speciale e futuro membro dell’Ue, l’Ucraina – ha aggiunto von der Leyen – In questa nuova realtà, l’Ucraina ha bisogno più che mai del nostro sostegno”.

Poi sulla questione energetica e sul distacco dalla Russia. “Queste catene di linee elettriche che vi collegano a vicini ostili saranno un ricordo del passato. Questa è libertà: libertà dalle minacce, libertà dal ricatto. Molto prima che i carri armati russi attraversassero l’Ucraina ci avevate avvertito che il gas a basso costo acquistato dalla Russia ha un costo nascosto, il costo della dipendenza”, ha spiegato von der Leyen sottolineando che, a tre anni di distanza dall’inizio del conflitto in Ucraina, “l’Europa nel suo insieme sta eliminando gradualmente i combustibili fossili russi: questa è una nuova era”.

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