In ospedale si corre. Ma sempre meno sono le gambe su cui farlo. Le corsie italiane
affrontano una crisi silenziosa ma devastante: mancano gli infermieri. Il dato è noto, ma
ogni giorno più drammatico. Secondo la FNOPI, la Federazione nazionale degli ordini
delle professioni infermieristiche, servirebbero oltre 60.000 infermieri in più solo per
garantire i livelli minimi di assistenza.
Non è solo una questione di numeri. È una questione di dignità. Perché dietro ogni turno
scoperto c’è una persona che rinuncia alla pausa, al riposo, al tempo per sé. C’è chi si
trova da solo in reparto, chi assiste contemporaneamente troppi pazienti, chi accoglie in
Pronto Soccorso anche donne vittime di violenza con protocolli complessi e tempi che si
dilatano fino a notte fonda. Chi lavora nel sistema lo sa: senza infermieri, non si cura
nessuno.
Eppure, le università, anziché essere travolte da candidature per l’accesso al corso di
laurea, fanno fatica a coprire i posti disponibili. Gli studenti sono pochi. Chi si iscrive
spesso abbandona. Chi si laurea non sempre resta in Italia. E non per colpa sua. I salari
sono bassi, le prospettive di carriera sono praticamente nulle, i carichi di lavoro
insostenibili. A volte manca persino il rispetto e le aggressioni al personale infermieristico
sono all’ordine del giorno.
Molti operatori sanitari raccontano una realtà fatta di solitudine nei turni, aggressioni, furti
negli spogliatoi, carenza di personale e responsabilità crescenti senza un ritorno né
economico né professionale. Soprattutto per chi lavora nei dipartimenti di emergenza
urgenza deve restare oltre l’orario di servizio fino alla conclusione del percorso di
assistenza, perché come previsto dal codice deontologico l’abbandono non è contemplato.
Ma questo ha un prezzo, umano ed emotivo, spesso taciuto.
L’università può fare la sua parte. Investire nella qualità della formazione, rafforzare il
tutorato, accompagnare gli studenti durante il percorso di studi, valorizzare la figura
dell’infermiere dal punto di vista culturale e sociale, prevedere percorsi di specializzazione
post base. Ma da sola non basta. Serve una strategia nazionale. Servono incentivi, tutela,
riconoscimento. Servono politiche che mettano l’assistenza al centro, non ai margini.
La politica ha una responsabilità non più rinviabile. Ogni legge che taglia posti letto, che
non finanzia le assunzioni, che ignora il grido di allarme delle professioni sanitari è una
legge miope. Una sanità che funziona è un investimento, non una spesa. Prevenire il
collasso delle strutture sanitarie significa evitare ricoveri inutili, ridurre le complicanze
garantendo la sicurezza dei cittadini delle famiglie e delle comunità, risparmiare risorse
che oggi vengono bruciate in emergenze che si sarebbero potute evitare con una rete
territoriale più forte, con più infermieri, con più umanità.
Perché possiamo avere tecnologie avanzate, ospedali nuovi, piani sanitari innovativi. Ma
senza chi cura, chi ascolta, chi veglia di notte – senza infermieri – la sanità è solo un
edificio vuoto.
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