Nessun dialogo, testo blindato e avanti come un treno. Nemmeno ora che la riforma sul premierato procede spedita verso l’approvazione in prima lettura al Senato la destra apre al confronto con le opposizioni. Decise a questo punto a vendere cara la pelle: «Interverremo tutti su ogni emendamento», annunciano ostruzionismo duro Pd, 5S e Avs quando si inizieranno a votare le 3mila proposte di modifica depositate dalla minoranza.
Durante la discussione generale, la maggioranza ha ignorato le critiche di Mario Monti: il terzo senatore a vita in pochi giorni – dopo Liliana Segre ed Elena Cattaneo – a demolire il ddl costituzionale che stravolge la democrazia parlamentare. Ma pure le obiezioni di Marcello Pera, il testo è difettoso», va cambiato, «altrimenti rischia seri problemi di costituzionalità».
Niente da fare. Fratelli d’Italia, con la sponda della ministra forzista Elisabetta Casellati, ha chiuso a ogni possibilità di ritocco. Ha dileggiato il Pd: «Il premierato lo avevate proposto per primi voi, a partire da Cesare Salvi». E il centrosinistra tutto: «Ho ascoltato i vostri interventi, spesso uguali e ripetitivi, al netto degli insulti», l’esordio sprezzante del relatore Alberto Balboni, che poi chiude con una provocazione: «Alla fine sarà il popolo a decidere se la riforma va bene: non si chiama democrazia questa? O non avete fiducia nel popolo?».
«Questo sistema riconcilia la Costituzione con la sovranità popolare», taglia corto Casellati. Che nelle repliche non spende neppure una parola per Marcello Pera. Il quale prima aveva elogiato il premierato britannico cui il modello italiano pare ispirarsi. Poi però aveva elencato tutte le «incongruenze» del testo messo a punto dalla maggioranza: «Oltre alla fiducia iniziale da togliere, ai contrappesi da aumentare, allo Statuto dell’opposizione da introdurre», «il progetto del governo prevede che il premier sia eletto direttamente ma non dice come. Tutto è demandato ad una legge elettorale, e io ho seri dubbi che da sé sola, senza previsioni costituzionali, possa risolvere il problema del voto estero, del possibile diverso esito elettorale Camera-Senato, della divisione dei poli politici in tre anziché in due, della soglia per ottenere il premio. Questo vuol dire», l’affondo di Pera, «che ci sono punti da correggere affinché la riforma non abbia difetti di costituzionalità. Auspico che lo dicano anche il relatore e il ministro delle Riforme poiché è inutile nasconderli».
Casellati nelle repliche preferisce criticare la senatrice Segre: «Fa riferimento alla legge Acerbo del 1923, che prevedeva l’attribuzione dei due terzi alla lista che avesse superato il 25% dei voti validi. Ma chi si è mai sognato di scrivere una legge così? Non ho mai ipotizzato una soglia inferiore al 40%». E attaccare a testa bassa il Pd, «abile nel giocare l’eterno gioco dell’intrigo, del ribaltone, dei governi tecnici». Si inizia a votare: cinque minuti di intervento su ognuno dei 3mila emendamenti per ciascuno dei tre gruppi d’opposizione fa 750 ore. Se la destra rinuncia a tagliole e canguri il via libera alla “madre di tutte le riforme” arriverà non prima dell’estate.
La questione del voto degli italiani all’estero esiste, ma verrà affrontata nella prossima legge elettorale alla quale sto già lavorando”. A confermarlo è Elisabetta Casellati, durante il suo tour elettorale in Basilicata.
Come scritto da Repubblica, i voti dei connazionali fuori dell’Italia, secondo il testo del premierato al Senato, peseranno per il 10 per cento. E diventeranno un tesoro prezioso per i candidati a Palazzo Chigi. Non mancano i dubbi dei costituzionalisti e i timori per la trasparenza nei seggi oltre confine.
“Prestiamo molta attenzione a questo tema – aggiunge – e siamo pronti ad ascoltare ogni suggerimento. Ma si tratta di un argomento che intendiamo affrontare nella legge elettorale e non nella riforma costituzionale”. E la legge elettorale, ribadisce, “verrà presentata durante il passaggio dal Senato alla Camera del disegno di legge sul premierato”.
La presidente del Senato in settimana aveva già ammesso che il voto all’estero “può essere un problema” da risolvere con la legge elettorale. “Però ho detto che la presenterò e mi confronterò, spero con migliore fortuna, con tutte le opposizioni anche su questo tema per delineare quelli che saranno i contorni della legge elettorale che meglio si adatti a questo progetto costituzionale”.
Il prossimo inquilino di Palazzo Chigi potrebbe essere deciso dalla comunità dei 27 mila italiani residenti in Ecuador o, chissà, dagli appena 1.539 connazionali che secondo l’ultimo e impolverato censimento hanno preso dimora in Nuova Zelanda. Il governo di Giorgia Meloni potrebbe dare un premio imprevisto alle “colonie” di emigranti che per scelta o per necessità vivono all’estero: un popolo di connazionali fuori dai confini che rischia di diventare determinante nell’elezione del presidente del Consiglio.
È una delle distorsioni della riforma del premierato in discussione in Senato, una delle anomalie su cui hanno puntato il dito, a turno, praticamente tutti i costituzionalisti. Gli italiani all’estero sono cinque milioni e oggi possono eleggere 12 parlamentari su 600. Hanno un “diritto di tribuna” limitato alla loro consistenza numerica. Ma il progetto di legge del premierato accresce in modo esponenziale il loro ruolo. Perché trionfa il principio dell’uno vale uno: ogni italiano che abita in terra straniera vale uno che risiede entro le frontiere italiche. Insomma, c’è un tesoretto di cinque milioni di voti che potrà fare la differenza, se si considera che il numero totale degli aventi diritto, alle Politiche, è pari a cinquanta milioni.
Si delinea un partito del dieci per cento di emigrati in oltre 200 Paesi, capaci di determinare da soli l’elezione di un premier, far pendere con forza la bilancia su un concorrente o su un altro. Al punto da spingere già alcuni parlamentari a immaginare, per i prossimi candidati alla guida del governo, lunghe trasferte elettorali a caccia del consenso dei siciliani di Buenos Aires o dei veneti a Melbourne.
In realtà, si porrebbe anche una questione di trasparenza del voto, visto che all’estero si vota per corrispondenza e si sono moltiplicate negli ultimi anni, le inchieste per brogli. Nella scorsa legislatura un deputato del Pd, Fabio Porta, vinse un ricorso e subentrò in Parlamento a Salvatore Cario, italo-uruguaiano il cui nome venne scritto con la stessa identica calligrafia – e con la medesima mano, secondo i periti del tribunale di Roma – in 300 schede depositate nella sede del consolato di Buenos Aires. E dopo le elezioni del 2022 circa 60 mila consensi della circoscrizione Sudamerica sono stati dichiarati nulli perché espressi su schede false: il cugino truffatore d’oltralpe aveva poca confidenza con l’Italia e aveva fatto stampare sulle schede la dicitura “Camera dei deputadi”…
E sì che gli eletti all’estero hanno avuto un peso nella storia parlamentare, anche recente: basti pensare al Maie, che fece da stampella ai traballanti governi Conte ed espresse un sottosegretario, Ricardo Merlo, o alle ambizioni di Sergio De Gregorio, senatore e fondatore del movimento “Italiani nel mondo” che non in modo disinteressato fece cadere Prodi nel 2006, passando da Di Pietro a Berlusconi. È in archivio, ormai, la breve e mirabolante avventura di un altro esponente di Forza Italia, Nicola Di Girolamo, che finì sotto processo per i brogli elettorali compiuti dalla ‘Ndrangheta a Stoccarda al fine di favorirlo, venne “dimissionato” dal Senato e finì in carcere, salvo patteggiare nel 2010 una condanna per riciclaggio e violazione della legge elettorale con aggravante mafiosa.
Ora, si badi, la storia delle comunità italiane all’estero è meritevole di massimo rispetto, e da tutelare sono le radici culturali che si nutrono anche di rappresentatività politica. Ma nel percorso della legge del premierato, a detta anche di un costituzionalista eletto in FdI come Marcello Pera, bisogna trovare un modo per dare un riconoscimento giusto ma non eccessivo alla “lobby dei paisà”: “La revisione dell’elezione a suffragio universale e diretto – ha detto Pera nel corso di una seduta della commissione Affari costituzionali – attribuisce chiaramente un peso eccessivo al voto degli Italiani residenti all’estero, in quanto sproporzionato rispetto ai seggi loro spettanti”.
Il testo nel frattempo è sbarcato in Aula ma una soluzione non è stata trovata: “O si impedisce ai nostri connazionali all’estero di non votare il premier – ragiona il senatore del Pd Dario Parrini – o si fa in modo che il loro consenso conti di meno. Entrambe le soluzioni le vedo difficili. La verità è che questa norma fa inceppare l’intero meccanismo. È una delle incongruenze che rendono il premierato, in questa forma, anche tecnicamente irrealizzabile”.