Il passato di Gaza non può essere sepolto

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La guerra a Gaza non sta per finire. Si potrà negoziare un cessate il fuoco temporaneo, ma se non si trova un accordo sul dopo la guerra andrà avanti. Il Premier israeliano è ostaggio di se stesso: da una parte per le sue vicende giudiziarie che lo spingono a non mollare la Presidenza del governo, dall’altro messo con le spalle al muro dai membri dell’estrema destra della sua coalizione di governo, che ne garantiscono la maggioranza e per questo non accettano ne cessate il fuoco, né tregue. Una scelta complicata: far tornare gli ostaggi a casa e nello stesso tempo garantire al governo di proseguire. Intanto il Paese è sempre più isolato a livello internazionale. Dal lato di Hamas non ci sono segnali incoraggianti sulla possibilità di consegnare gli ostaggi. Se prima Israele non fornisce garanzie concrete circa il fatto che una volta consegnati gli ostaggi, non riprenderà la campagna militare. Intanto esaminiamo le tre fasi che potrebbero essere oggetto di cessate il fuoco: scambio di prigionieri, cessate il fuoco definitivamente, ed infine un progetto concreto per la ricostruzione di Gaza. Netanyahu continua a sostenere che non voleva assolutamente annientare la popolazione palestinese, ne’ di annettere Gaza dopo averla evacuata. Se così fosse non dovrebbe tralasciare tre questioni fondamentali. Il passato di Gaza non può essere sepolto perché la sua popolazione ha sofferto condizioni terribili, sin da molto prima dell’attuale guerra, l’estrema povertà della popolazione aveva già raggiunto livelli altissimi durante i 17 anni di occupazione israeliana,che ha trasformato la Striscia di Gaza in una prigione a cielo aperto. Infatti Gaza è e resterà una terra occupata perché le sue ricchezze e i suoi confini sono rimasti sotto il controllo di Israele. Il futuro di questa martoriata regione dipenderà dalla possibilità di movimento della popolazione e dagli scambi commerciali , solo così si potrà assicurare una vita dignitosa e non essere considerati cittadini/ sudditi. Per il dopo fine del conflitto per poter pensare ad una seria quanto rapida ricostruzione, occorre uno sforzo corale della comunità internazionale: si stima che occorre un investimento che supera i 50 miliardi di dollari e un minimo di 10 anni per realizzarla, senza tener conto del danno psicologico che la popolazione ha dovuto patire. Quindi occorre, al di là della ricostruzione, ricucire il tessuto sociale e curare i danni psicologici soprattutto ai bambini cresciuti nella paura e nel desiderio di vendetta. Grande protagonista dovrà essere la scuola, poi la giustizia e la sanità. Ogni piano di ricostruzione va inquadrato all’interno di un più ampio programma di largo respiro che elimini ogni ingerenza di Israele per raggiungere il superamento dell’apartheid e il riconoscimento dei Palestinesi come un popolo e uno Stato. Questa è la premessa fondamentale per cui la ricostruzione non si riduca ad un grande business per imprese internazionale senza il coinvolgimento delle realtà locali che impedirebbe alle future generazioni il diritto di sognare il proprio futuro.

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