Il ‘no’ di Giorgia Meloni, guida di Ecr e Fratelli d’Italia, alla rielezione della der Leyen, ci parla di autonomia politica e del rifiuto di una captazio benevolentiae per ottenere un ‘dovuto’ Commissario di peso

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Da presidente del Consiglio e presidente della Commissione, Meloni e von der Leyen hanno lavorato a stretto contatto, con una collaborazione che entrambe le parti hanno sempre considerato positivamente. Ma ora proprio la rielezione di von der Leyen rappresenta una vera e propria disfatta sia per la Meloni, che per la der Leyen.

Le elezioni per il nuovo Parlamento europeo, che secondo la destra avrebbero dovuto risultare in una nuova maggioranza a Bruxelles sul modello italiano e in un netto cambio di passo, non sono andate come previsto. Le forze progressiste hanno resistito e i Popolari sono rimasti fedeli alla grande alleanza, con Socialisti e Renew. La nuova maggioranza di centrodestra non si è formata e i Conservatori, guidati da Meloni, si sono trovati isolati: da un lato non sono stati compresi nelle trattative sulle nomine per i top jobs, rimanendo fuori dalla maggioranza Ursula; dall’altro si sono trovati a non essere decisivi nemmeno all’opposizione, con il nuovo gruppo dei Patrioti ancora più a destra che è riuscito a riunire diversi partiti, tra cui alcuni dei principali alleati di Fratelli d’Italia, come Vox.

Insomma, se alcuni mesi fa il rapporto tra Meloni e von der Leyen poteva rappresentare qualcosa di positivo per il governo italiano, che rivendicava attenzioni di Bruxelles al nostro Paese senza precedenti, oggi le cose stanno in maniera un po’ diversa.

Per Forza Italia avere un esponente dei Popolari alla Commissione è sicuramente una vittoria, anche se simboleggia allo stesso tempo la distanza sempre più ampia con i due alleati al governo. Per la Lega, che alle elezioni europee ha visto confermarsi il tracollo di consenso rispetto alla tornata precedente, potrebbe essere una buona notizia, perché permette di fare opposizione interna, da Bruxelles, e provare a riconquistare quei voti che negli ultimi anni sono scivolati al partito di Meloni. Ma per Fratelli d’Italia non stare né all’opposizione, ma nemmeno in maggioranza, non è sicuramente una posizione comoda.

Rebus sic stantibus: qui pro quo! La nota della lavandaia non può, e non deve bastare, per cogliere il motivo di un rigido e fermo ‘no’ alla rielezione della der Leyen da parte della nostra premier. Il no della Meloni non sarebbe  stato determinante per la non rielezione di Ursula ma quello che non si può cogliere, e non si può accettare, è il malcontento di alcuni esponenti di destra che ritengono che il ‘no’ della Meloni li lascerà fuori da tutto. In realtà sono questi signori ad essere fuori da tutto: cosa aspettavano, una captatio benevolentiae verso da der Leyen per conquistarsi un contentino, un incarico, una nomina?

il «no» giunto dalla delegazione di FdI-Ecr e dalla Lega è  una scelta in perfetta coerenza con il mandato popolare che ha assegnato al destra-centro italiano e al governo Meloni il ruolo di alternativa euro-realista nei confronti di una Commissione, che proprio in ragione di ciò ha dovuto sconfessare rovinosamente gran parte di sé stessa (oltre che sulle politiche green, anche sulla Pac, sul nodo immigrazione) nell’ultima parte di stagione. Salvo poi, con un istinto politicista da far impallidire il parlamentarismo spinto “all’italiana”, ripresentarsi tale e quale ai nastri di partenza. Anzi ancora più dipendente, moralmente, dal fanatismo ambientalista.

Questo secondo round ha confermato peggiorandoli, «nel merito e nel metodo» come ha sottolineato Giorgia Meloni, gli stessi vizi del primo: quello che ha riguardato in stretta misura l’approccio dei governi al risultato delle Europee. Già alla famosa cena dei 27 infatti, il Consiglio europeo informale svoltosi poco dopo le elezioni, si lasciava capire il tutto. Emmanuel Macron, Olaf Scholz, e i maggiorenti del Ppe  a discutere della distribuzione dei top jobs blindando lo status quo per escludere Ecr e l’Italia. Tutto ciò “nonostante” l’indirizzo degli europei, il tutto nella logica del potere, contro la volontà del popolo, dell’elettorato, di quello che volevano.

La tesi critica dice che con il «no» Giorgia Meloni avrebbe scelto di non stare «nella stanza dei bottoni». In pratica,   la scelta di non salire sul palco per la foto con i  cosiddetti vincitori. La rottura non colta, che risulta in distacco con i governi presidenti che hanno detto sempre sì alla Commissione. Oggi, il ruolo assunto dalla premier, e dal governo italiano, ci dice che ha detto ‘no’ all’essere comprimario delle decisioni prese da altri.

La realtà è un’altra. Il ruolo e il peso dell’Italia, al netto dell’assegnazione di un Commissario di peso che le spetta di diritto, viste le dinamiche messe in campo da Giorgia Meloni,  rappresentante dell’unico esecutivo fra i “grandi” dell’Ue premiato dagli elettori, e punta europea della destra di governo. Certo, si sperava che la Commissione prendesse atto e interpretasse politicamente la voglia di cambiamento ufficializzata dal voto, ma  la scelta ha detto altro.  Tutto questo per il “filocinese” Green Deal, autentico manifesto della realtà franco-tedesca, che si aggrappa a qualsiasi stampella per essere totalmente, e pienamente, anti-popolare, ben convinta di andare lontano, a dispetto di tutto e di tutti.

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