Robert Kennedy junior, figlio di Bob, candidato indipendente alle presidenziali americane, annuncerà ufficialmente il suo ritiro e l’appoggio a Donald Trump. La notizia è stata confermata da alcuni media americani e può imprimere una svolta alla lotta tra il candidato repubblicano e Kamala Harris, considerato che Kennedy era indicato in tutti i sondaggi con un consenso variabile tra l’8 e il 10%.
Il figlio di Bob (assassinato il 1968 proprio mentre correva per la Casa Bianca, cinque anni dopo l’omicidio del fratello, il presidente John a Dallas) dovrebbe annunciare il suo ritiro oggi, venerdì 23 agosto, nel corso di un comizio in Arizona. Secondo Cnn e New York Times, Roberto Kennedy jr farà l’endorsment verso Donald Trump e potrebbe fare parte della sua squadra di governo.
Proprio il tycoon, durante la convention repubblicana, aveva espresso parole di apprezzamento per l’erede della grande dinastia di origine irlandese: “Mi piace molto e lo rispetto”, aveva detto Trump.
Quanto può influire l’effetto Kennedy sulla corsa presidenziale
Robert Kennedy è stato sempre accreditato di un consenso variabile tra l’8 e il 10%. Proveniente dal Partito Democratico (come tutta la sua famiglia) aveva conquistato tanti consensi soprattutto nel mondo dei no vax e degli ambientalisti. Ovviamente il principio delle addizioni semplici non vale in politica ma si può presumere che, una scelta a favore di Trump, possa spostare tre-quattro punti per i repubblicani ed essere determinante negli Stati da sempre decisivi.
70 anni, avvocato, Robert Kennedy jr dal 2023 ha cominciato la campagna elettorale per le elezioni presidenziali americane del 2024, prima per il Partito Democratico e poi come indipendente. Cattolico, come tutta la famiglia, è particolarmente devoto a San Francesco d’Assisi.
Critico verso i vaccini anticovid, ha dichiarato che la pandemia ha provocato “4,4 1000 miliardi di dollari di spostamento della ricchezza dalla classe media americana a questa nuova oligarchia che abbiamo creato, e 500 nuovi miliardari con i lockdown”.
Kennedy ha anche dichiarato che il governo americano è dominato dal potere di grandi corporazioni, ha affermato che l’Agenzia statunitense per la protezione dell’ambiente è stata gestita “dall’industria petrolifera, dall’industria del carbone e dall’industria dei pesticidi”, e ha descritto la Food and Drug Administration come “dominata da Big Pharma”.
E’ stato sempre un fervente antimilitarista e ha fortemente criticato l’amministrazione Biden per il comportamento tenuto nel conflitto tra Russia e Ucraina.
Il candidato vicepresidente di Kennedy ha discusso apertamente di questa possibilità in un podcast questa settimana, dicendo che la campagna stava valutando la possibilità di “unire le forze” con Trump e limitare le possibilità elettorali di Kamala Harris, la cui convention democratica si concluderà stasera a Chicago. Un tempo la mossa sarebbe sembrata impensabile per Kennedy, per la maggior parte della sua vita democratico e – come nipote del presidente John F. Kennedy e figlio di Robert F. Kennedy – membro di un’amata dinastia democratica. Il mese scorso, durante la Convention Nazionale Repubblicana, il candidato indipendente Bob Kennedy Jr. ha postato e poi ha cancellato velocemente un video che mostrava una telefonata tra sé stesso e Donald Trump, in cui l’ex presidente sembrava cercare di convincere Kennedy a schierarsi con lui.
Kennedy terrà così un discorso a Phoenix, poche ore prima del discorso che Trump terrà nel corso di una manifestazione nella vicina Glendale. Una portavoce di Kennedy, Stefanie Spear, ha rifiutato di dire se ha intenzione di abbandonare o del perché ha scelto l’Arizona per il suo discorso. Trump e Kennedy sono stati in contatto regolare nelle ultime settimane, anche a Milwaukee mentre i repubblicani si riunivano per la loro convention nazionale. Martedì Trump ha detto alla CNN che gli sarebbe “piaciuto” l’appoggio dell’indipendente Kennedy, definendolo un “ragazzo brillante”. Ha anche detto che sarebbe “certamente” aperto al fatto che Kennedy possa avere un ruolo nella sua amministrazione a patto che si ritiri e scelga di appoggiarlo.
Dopo aver lasciato le primarie democratiche per candidarsi come indipendente, Kennedy ha costruito una base di supporto insolitamente forte per qualcuno che corre senza il sostegno di alcun partito principale. Non era chiaro esattamente da dove provenisse il suo sostegno e questo preoccupava sia i repubblicani che i democratici. Ma da quando il presidente Joe Biden si è ritirato dalla rielezione e i democratici si sono coalizzati attorno al vicepresidente Harris, l’ascesa di Kennedy è stata stentata.
«Tutto ciò che l’uomo ha imparato dalla storia è che dalla storia l’uomo non ha imparato niente». Un bel post-it che dovrebbe accompagnare la campagna elettorale di Kamala Harris. Servirebbe, quel memo, a consigliarle di dare una forte ripassata all’impianto di politica economica, coi suoi capisaldi in opposizione ai principi del libero mercato che hanno tutta l’aria di essere una pericolosa miccia di innesco per altro debito e altra inflazione
In base ai calcoli del Comitato per un bilancio federale responsabile (Crfb), la Kamalanomics costerà quasi due trilioni di dollari in 10 anni. Il che significa un debito federale, attualmente sopra i 35mila miliardi, ancor più ingestibile e insostenibile che metterà a repentaglio lo status di valuta di riserva globale del dollaro.
Con efficace crasi, il New York Post ha parlato di «Kamunism» non appena la candidata alla Casa Bianca ha aggiunto un altro ingrediente alla sua ricetta «per ricostruire la classe media»: oltre alla cancellazione dei debiti sanitari, un credito d’imposta di 6mila dollari per le famiglie con bebé e un altro di 10mila per chi compra casa per la prima volta e l’innalzamento dell’aliquota d’imposta sulle società dal 21% al 28%, Kamala intende introdurre il controllo dei prezzi sui generi alimentari. Obiettivo: mettere al bando quella speculazione che soffia sul fuoco del carovita, il vero convitato di pietra nella corsa per le presidenziali.
Kamala si è accorta solo ora, dopo oltre 1.300 giorni passati al fianco di Joe Biden, di essere circondata da un nugolo di ingordi affamatori. Dimenticandosi dei 5mila miliardi di dollari inoculati nelle vene dell’America per uscire dalla recessione provocata dal Covid. Il Paese è ripartito, ma il conto è stato salato: prima che la Fed imponesse una cura da cavallo a colpi di rialzi dei tassi, l’inflazione è schizzata sopra il 9%. Se mai c’è stato, il fenomeno del «price gouging», cioè la pratica di gonfiare in modo scorretto i listini, avrebbe dovuto essere contrastato da Biden quando l’inflazione era all’acme. E invece, nulla. Il bersaglio è infatti quello sbagliato: il Fondo monetario internazionale ha calcolato che nel 2023 i margini di profitto nel settore alimentare hanno raggiunto il livello più basso dal 2019, pari all’1,6%.
Molti economisti sono convinti che la crociata kamaliana avrà sgraditi effetti collaterali, tra cui carenze di cibo, fioritura dei mercati neri e serrata dei negozi alimentari. Il passato dà loro ragione. Basta leggere la bibbia sull’argomento (Forty Centuries of Wage and Price Controls: How Not to Fight Inflation, di Schuettinger e Butler): dell’impulso governativo di mettere la museruola ai prezzi si trovano già tracce nel Codice di Hammurabi, pieno di tabelle su come controllare perfino il noleggio dei carri; nei Sitonai, i guardiani del grano di Atene; nella Lex Sempronia Frumentaria di Caio Gracco che permise a un terzo dei romani di vivere grazie al «cibo gratuito» offerto dal governo; fino ad arrivare ai tempi più recenti, con i tentativi di pianificazione da parte di nazisti e comunisti e con il congelamento di prezzi e salari deciso da Nixon nel ’71 che fece schizzare l’oro alle stelle. Quattromila anni di insuccessi e di esiti nefasti di cui è testimone la storia. Basterebbe, ogni tanto, darle una ripassata.