Con Kamala Harris i democratici chiudono nell’angolo la gerontocrazia del partito, i clan e le dinastie

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Kamala Harris accetta la nomination alla presidenza «per conto di tutti coloro la cui storia può essere scritta solo nella più grande nazione sulla terra, mettiamoci al lavoro. Non torneremo indietro, questa non è solo l’elezione più importante della nostra vita ma di una generazione.

Il suo secondo pensiero va subito a Joe Biden: «il tuo record da presidente è straordinario io e Doug ti saremo grati per sempre». Abbiamo l’occasione preziosa di superare il cinismo, il rancore e le divisive battaglie del passato. Abbiamo la chance di tracciare una nuova strada da seguire. Non come membri di un partito o di una fazione ma come americani».

La vicepresidente attacca Donald Trump: «È una persona non seria ma le conseguenze di riaverlo alla Casa Bianca sono estremamente serie. Considerate il potere che avrà, soprattutto dopo che la Corte Suprema gli ha concesso l’immunità”, spiega assicurando che non si alleerà mai con i dittatori come l’ex presidente e che resterà a fianco dell’Ucraina, nella Nato e con l’Europa.

La Harris si sofferma  sullo spinoso tema di Gaza che spacca i democratici. Promette che chiuderà l’accordo per il cessate il fuoco e il rilascio degli ostaggi: «Io e il presidente lavoriamo senza sosta per mettere fine alla guerra in modo che Israele sia sicuro, le sofferenze a Gaza finiscano e i palestinesi possano realizzare l’aspirazione alla loro autodeterminazione». La vicepresidente affronta anche il nodo dell’immigrazione, suo tallone di Achille che la espone a forti critiche da parte dei repubblicani. Harris si è impegnata a intervenire e riformare il sistema dell’immigrazione, anche offrendo un percorso di cittadinanza a chi lo merita, e risolvere l’emergenza al confine.

Sull’economia la vicepresidente si impegna ad aiutare la classe media, da cui lei stessa proviene, e le famiglie. Una volta terminato il discorso più importante della sua carriera politica, Harris è raggiunta sul palco dal marito, il candidato alla vicepresidenza Tim Walz e la moglie Gwen, tutti accolti da una pioggia di 100.000 palloncini mentre suonano le note di Fredeom di Beyoncé. La superstar era attesa e molte indiscrezioni ne indicavano la presenza ma Beyoncé sul palco non è salita. A dare spettacolo è stata Pink, ma anche una serie di star di Hollywood, da Kerry Washington a Eva Longoria.

Molti importanti nomi della politica si sono avvicendati esortando gli americani a votare per Kamala Harris, una «tosta, una di noi», come l’ha descritta la governatrice del Michigan Gretchen Whitmer. Sul palco salgono anche le mamme, le insegnanti e i compagni di bambini uccisi nelle stragi a scuola – da Sandy Hook in Connecticut a Uvalde in Texas. Un momento drammatico che ha ricordato quanto la piaga della violenza delle armi sia diffusa negli Stati Uniti. «Kamala Harris sarà una grande presidente, e affronterà e batterà la lobby delle armi», dice determinata Gabby Giffords, l’ex deputata democratica colpita da una pallottola nel corso di una sparatoria nel 2011 in cui furono uccise sei persone. Gifford si salvò per miracolo. Da allora si è lanciata in una battaglia serrata contro le armi, nella quale Harris è giè impegnata in prima fila. Sul palco anche i Central Park Five, i cinque afroamericani che da teenager furono carcerati per decenni per un crimine mai commesso. Per loro, accusati di aver stuprato e ridotto in fin di vita una ragazza che correva a Central Park nel 1989, Trump chiese la pena di morte acquistando pagine sui quotidiani locali.

I quattro giorni di Chicago hanno disegnato un cambiamento sensibilmente più  profondo del commiato del leader troppo vecchio per affrontare un nuovo mandato, visto che mette alle corde la gerontocrazia di un partito,  e con essa, il partito dei clan e delle dinastie.

Michelle Obama, ha affascinato con il suo intervento, che è stato trascinante,  intriso di orgoglio e passione civile, e molti si sono rammaricati della sua rinuncia ad una possibile candidatura.  

Il marito, Barack Obama, che ha parlato dopo di lei, non è riuscito a scaldare i cuori.  Il suo discorso è stato politicamente acuto, ma non trascinante. Ha solo, in fondo, riesumato lo slogan del  2008, declinandolo al femminile: «Yes she can».

Bill Clinton che,  ignorando in gran parte il testo del discorso scritto, parla per quasi mezz’ora invece dei 12 minuti previsti.

Nancy Pelosi è più vivace e dinamica di Clinton nonostante i suoi 84 anni, ed è   stata la regista delle pressioni concentriche su Biden, rimane una ex speaker dal grande intuito politico, ma che non riesce a trasferire al popolo della convention molto più di un  tentativo di ricucire col presidente.  

Hillary Clinton, come sempre  empatica  e limpida, in pace con se stessa avendo accettato di essere arrivata al suo capolinea politico.

È un cambiamento epocale, visto che si aspetta un nuovo volto di un partito, da sempre obbligato a tenere insieme anime molto diverse. Quale sarà la struttura del nuovo fonte democratico.  Kamala Harris, solo di recente ha cominciato a costruire una rete di alleanze nel partito avrà la forza di tenere insieme una coalizione sempre più sfaccettata nel grande mix di etnie, culture, fedi religiose, identità di genere?

Karl Rove, stratega repubblicano delle vittorie di George Bush, avverte Trump: «Normalmente i democratici sono entusiasti, si innamorano, mentre i repubblicani sono disciplinati, si allineano. Stavolta la sinistra sembra tanto entusiasta quando disciplinata: se resta allineata dietro Kamala per la destra saranno guai». Per ora a garantire l’unità c’è soprattutto lo spettro di Trump 2 che, a detta di  Barack Obama, sarà peggiore dell’originale.

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