Donald Trump e il futuro dell’industria automobilistica negli Stati Uniti

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Donald Trump sta riportando al centro del dibattito il futuro dell’industria automobilistica negli Stati Uniti con  proposte ambiziose,  avanzando  l’idea di offrire incentivi fiscali alle case automobilistiche straniere che scelgono di produrre i loro veicoli all’interno del Paese. Allo stesso tempo, minaccia di imporre elevate tariffe doganali a chi decide di importare auto dall’estero, offrendo incentivi alle case automobilistiche straniere per produrre negli USA

Nel corso di un intervento a Savannah in Georgia, Donald Trump ha messo in evidenza la sua intenzione di ridurre l’aliquota fiscale per le imprese, portandola dal 21% al 15%, ma solo per quelle che producono i propri beni negli Stati Uniti. Durante il discorso, ha affermato: “Voglio che le case automobilistiche tedesche diventino case automobilistiche americane. Voglio che costruiscano i loro stabilimenti qui. Ecco l’accordo che offrirò a ogni azienda e produttore del mondo: vi garantirò le tasse più basse, i costi energetici più ridotti e il minor carico normativo possibile, oltre all’accesso libero al più grande e importante mercato del pianeta”. Tuttavia, ha precisato: “Questo vale solo se produrrete qui, negli Stati Uniti, e impiegherete lavoratori americani. Se non lo farete, vi sarà imposta una tariffa, e sarà una tariffa molto elevata”.

In particolare ha minacciato di imporre una tariffa del 100% su tutte le auto importate dal Messico. Questa misura avrebbe un impatto su molte case automobilistiche che hanno stabilito fabbriche in Messico per sfruttare i minori costi di manodopera. Il candidato alla presidenza USA ha dichiarato che, sotto la sua presidenza, non solo i posti di lavoro americani resteranno negli Stati Uniti, ma che gli Stati Uniti “prenderanno i posti di lavoro di altri Paesi” e “riporteranno migliaia di aziende e trilioni di dollari di ricchezza nei buoni vecchi Stati Uniti”.

Donald Trump ha raggiunto un nuovo livello, diventando la prima persona a guadagnare un miliardo di dollari con la politica, meno di quattro anni dopo aver perso la rielezione e mentre si candida per la terza volta alla Casa Bianca. Patrimonio netto: 3,8 miliardi di dollari, il presidente più ricco della storia degli Stati Uniti ha concluso il suo primo mandato in condizioni finanziarie disastrose, con il suo intero impero immobiliare – proprietà commerciali, hotel, accordi di licenza – che ha sofferto sotto il peso combinato di una pandemia globale e di un proprietario ai ferri corti con l’opinione pubblica americana. Tuttavia, Trump, che in precedenza era sopravvissuto a quattro bancarotte, due processi per impeachment e scandali pressoché continui, è riuscito ancora una volta a uscire dai guai. Da quando ha lasciato il suo incarico, la sua fortuna è aumentata vertiginosamente, fino a triplicare il suo valore massimo. Il magnate ha rielaborato o saldato miliardi di dollari di debiti e ha visto il boom del suo golf e dei suoi resort grazie all’afflusso dei suoi seguaci nelle sue proprietà. Ma la più grande spinta al conto in banca di Trump, almeno sulla carta, è arrivata da Truth Social, il suo emulatore di Twitter che, nonostante abbia guadagnato solo 3,4 milioni di dollari nei 12 mesi fino a giugno e abbia registrato una perdita netta di 380 milioni di dollari, è apparentemente diventato un modo per i commercianti al dettaglio Maga di investire personalmente nel loro presidente preferito e nelle sue prospettive, con il mercato l’ha valutata circa 3 miliardi di dollari. Le azioni di Trump valgono quasi 1,7 miliardi di dollari e gli hanno permesso di rientrare nella classifica Forbes 400 dopo averla mancata per due volte negli ultimi tre anni.

A  meno di 50  giorni dalle elezioni i comizi e gli incontri con gli elettori si moltiplicano, in particolar modo negli Stati indecisi, quelli dagli esiti incerti per i quali è difficile fare delle previsioni su chi se li aggiudicherà. Donald Trump, quando era sotto processo a Manhattan, si era lamentato di essere bloccato a New York per le sue vicende giudiziarie e di non poter proseguire la sua campagna negli Stati indecisi. Il sindaco democratico di New York, Eric Adams,  accusato di corruzione nell’ambito di un’indagine federale relativa alle donazioni ricevute durante la campagna elettorale, non è ancora chiaro quali accuse dovrà affrontare, ma l’indagine si è concentrata sulla possibilità che la sua campagna abbia cospirato con il governo turco per ricevere donazioni straniere illegali. Come sottolineato dalla stampa Usa, l’incriminazione di Adams presenta risvolti politici a livello nazionale: tra poco più di un mese si terranno negli Stati Uniti le elezioni presidenziali, oltre alle elezioni per il rinnovo parziale di Camera e Senato. Lo Stato di New York è al centro di una contesa serrata tra Democratici e Repubblicani che potrebbe contribuire a determinare gli equilibri al Congresso federale. C’è poi un meccanismo tecnico che potrebbe affliggere i numeri delle elezioni del prossimo novembre. L’indagine penale potrebbe portare alla sua sostituzione come uno dei 28 elettori presidenziali democratici dello Stato, all’interno del famigerato Collegio Elettorale, che “convalida” i risultati del voto popolare. Questo significa che esiste una remota possibilità che Adams possa comportarsi come un elettore “infedele”, non votando per Harris, come ripicca per l’indagine federale nei suoi confronti. Lo scenario da incubo che si scatenerebbe nel Collegio, che richiede almeno il risultato 270-268 per assegnare la Casa Bianca, è che Adams trasformi il pallottoliere in un 269-269.

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