La riforma rappresenta una sfida cruciale per il sistema politico italiano, e solo il tempo e il confronto tra le forze politiche e i cittadini diranno se il presidenzialismo sarà in grado di mantenere le sue promesse senza tradire le aspettative democratiche del Paese.
“Assolutamente no. Puntiamo a portare a casa il premierato entro la fine di questa legislatura. Nessuno ha mai detto che avremmo fatto la riforma in sei mesi, ma sicuramente non c’è alcun dubbio che il premierato verrà approvato definitivamente dal Parlamento entro il termine di questa legislatura”. Lo afferma ad Affaritaliani.it Alberto Balboni, presidente di Fratelli d’Italia della Commissione Affari costituzionali del Senato, rispondendo alla domanda se il premierato si sia arenato e se slitterà alla prossima legislatura.
“Alla Camera abbiamo deciso di dare la precedenza alla riforma della giustizia per metterci in pari visto che il premierato è già stato approvato dal Senato. Una volta finita la prima lettura della riforma costituzionale della giustizia a Montecitorio si passerà all’esame del premierato alla Camera e la giustizia verrà da noi in Senato. Così in questo modo le due riforme costituzionali potranno camminare parallelamente e le due Camere se le scambieranno”.
Il referendum confermativo, dato che non ci saranno ovviamente i due terzi in Parlamento, ci sarà nel giugno del 2027 prima delle elezioni politiche dell’autunno? “Potrebbe tranquillamente essere anche, ritengo possibile il referendum istituzionale sul premierato nell’autunno del prossimo anno (2026). La seconda lettura sia alla Camera sia al Senato è molto veloce, non ci sono più audizioni e dibattiti sugli emendamenti. E’ una votazione sola, prendere o lasciare e quindi tempi velocissimi”, spiega Balboni.
Ma Meloni non farà come Renzi e cioè dimettersi se perde il referendum… “Come ha sempre detto il presidente del Consiglio le riforme non sono legate al suo destino ma al programma elettorale della maggioranza di governo. Meloni è il leader perché Fratelli d’Italia è stato il primo partito ma queste riforme coinvolgono tutti, da Meloni all’ultimo parlamentare di Centrodestra. E’ chiaro che un’eventuale bocciatura del referendum sarebbe un risultato negativo non per il presidente del Consiglio ma per la coalizione. Questo problema però non esiste perché siamo convintissimi che prevarranno ampiamente i favorevoli alla riforma. C’è un chiaro sentimento nell’opinione pubblica, al di là di quello che dicono a sinistra, sull’elezione diretta del premier come avviene con il sindaco e il governatore della regione. Siamo convinti che al referendum vincerà nettamente il sì al premierato”, conclude Balboni.
Giorgia Meloni pensa comunque ad un piano alternativo per introdurre il premierato senza passare dalla riforma costituzionale, pensando ad una modifica alla legge elettorale che si ispiri ai modelli di voto utilizzati per l’elezione dei sindaci e dei presidenti di Regione.
In pratica una rivisitazione del Tatarellum, sistema che prevede un turno unico, un premio di maggioranza alla coalizione vincente e l’elezione diretta del presidente del Consiglio. Questo meccanismo garantirebbe una maggiore stabilità istituzionale, vincolando la durata della legislatura a quella del premier ed eliminando il rischio di governi tecnici.
L’adozione di questa strategia riflette un approccio pragmatico: «La soluzione è un atto di pragmatismo democristiano da parte di Giorgia». Meloni punta a realizzare il disegno del premierato evitando il confronto con il Quirinale e senza la necessità di sottoporsi a un referendum dall’esito incerto.
Non è semplice questo piano secondario della premier, visto che uno degli aspetti più divisivi riguarda l’introduzione delle preferenze. Questa modalità, prevista dal Tatarellum, gode del favore di Fratelli d’Italia e Noi Moderati, ma incontra la ferma opposizione di Forza Italia e della Lega. In passato questo tema aveva già sollevato tensioni: «L’ultima volta che venne fatto un tentativo, ai tempi del governo di Matteo Renzi, le preferenze furono bocciate a scrutinio segreto».
Un altro nodo riguarda i limiti imposti dalla Corte Costituzionale sul premio di maggioranza. Il gruppo di lavoro parlamentare, costituito per studiare la proposta e guidato da un esponente di Fratelli d’Italia, dovrà esaminare questi vincoli e proporre un modello che rispetti i principi sanciti dalla Consulta.
Nel centrodestra, prevale una certa cautela sulla riforma elettorale. È diffusa, infatti, la consapevolezza del rischio politico: «Chi ha cambiato la legge elettorale ha sempre perso». Meloni, tuttavia, sembra determinata a portare avanti il progetto, rassicurando gli alleati sul fatto che il governo intende arrivare a fine legislatura, prevista per giugno 2027.
L’obiettivo resta quello di costruire un sistema elettorale più stabile e funzionale, capace di rafforzare l’azione di governo e garantire maggiore chiarezza nelle maggioranze, senza toccare la Costituzione.
Meloni ne ha discusso con gli alleati aprendo un dossier che resterà riservato per ragioni politiche e di timing. Ma che non sia stato un confronto occasionale lo testimoniano la presenza alla riunione del ministro per le Riforme e la decisione di costituire un gruppo di lavoro in Parlamento che sarà composto da rappresentanti di tutti le forze di maggioranza e sarà guidato da uno dei massimi esponenti di FdI.
Il progetto, in fase embrionale, parte dall’esame dei due modelli di voto oggi in vigore in Italia: la legge per l’elezione dei sindaci e quella per l’elezione dei presidenti di Regione. Siccome il primo modello prevede il doppio turno, che storicamente è inviso al centrodestra, è chiaro che il gruppo di lavoro si concentrerà su una rivisitazione in chiave nazionale del Tatarellum: turno unico, premio di maggioranza alla coalizione vincente ed elezione del governatore. Questo aspetto legherebbe di fatto la vita della legislatura alla durata del presidente del Consiglio, sbarrando la strada ai governi tecnici.
Così Meloni realizzerebbe il disegno del premierato senza dover sfidare il Quirinale e senza dover passare da un referendum dall’esito incerto. Alla quale comunque toccherebbe spiegare perché mai intenda cambiare la legge elettorale senza la riforma costituzionale: in fondo l’attuale sistema di voto le ha consentito di avere una schiacciante maggioranza in Parlamento. Ma secondo i tecnici della premier «con il Rosatellum non è scontata una chiara maggioranza». E in effetti il risultato del 2022 è stato conseguenza della divisione tra le forze di centrosinistra, che ha permesso agli avversari di fare incetta di collegi.
Negli ultimi mesi, il dibattito sulla riforma del premierato è stato al centro della scena politica italiana, salvo poi scemare nei riflettori mediatici per alcuni mesi. Dopo il primo via libera del Senato il 18 giugno scorso, il disegno di legge costituzionale presentato dal governo Meloni a novembre 2023 prosegue il suo lungo e tortuoso iter verso l’approvazione definitiva. Il percorso richiede infatti ulteriori passaggi alla Camera, prima in commissione e poi in aula, dove il testo potrebbe subire modifiche. Successivamente, è necessaria una nuova approvazione da parte di entrambe le Camere, a distanza di almeno tre mesi, con il medesimo contenuto. Nella seconda votazione, il disegno di legge deve ottenere una maggioranza qualificata di due terzi, altrimenti sarà sottoposto a referendum popolare.