Giornalisti ovunque, decine di telecamere, operatori, inviati, fotografi fin dalle 8,30 di mattina a Roma ad Acca Larenzia di fronte alla storica sede del Msi. Braccia tese e il rituale del ‘presente’. A 47 anni dai tragici fatti di via Acca Larenzia i militanti di destra tornano a commemorare quanto avvenuto il 7 gennaio 1978 quando davanti alla ex storica sezione del Msi furono uccisi da un commando di estrema sinistra due giovani attivisti del Fronte della Gioventù, Franco Bigonzetti e Francesco Ciavatta mentre un terzo militante, Stefano Recchioni perse la vita dopo essere stato raggiunto da un colpo di pistola negli scontri scoppiati durante una manifestazione di protesta organizzata nelle ore immediatamente successive sul luogo stesso dell’agguato.
Militanti di destra si sono riuniti nel piazzale antistante la ex sezione per il consueto rituale: i militanti urlano, diversi con il braccio destro alzato, tre volte ‘presente’ in risposta a una voce che grida ‘per tutti i camerati caduti’.
“È giunta l’ora di condividere questa memoria, senza ipocrisie. Memoria comune che se non può più poggiarsi sulle sentenze dei tribunali deve fondarsi sulla verità storica. E a questa si può ancora giungere attraverso una commissione parlamentare d’inchiesta che accerti le responsabilità di chi ha messo in mano a ragazzi di 18-20 anni armi da guerra, mitragliette, esplosivi determinando una vera guerra civile strisciante. Non ci sono troppe speranze di riaprire i processi, ma capire se c’è stata una mano che ha mosso i fili della strategia della tensione sì, è possibile. Fare luce sarà il modo per risarcire chi ha sofferto”. È quanto scrive sul Messaggero il vicepresidente della Camera dei deputati Fabio Rampelli di Fratelli d’Italia, primo firmatario della proposta di legge di istituzione di una commissione d’inchiesta sulla violenza politica tra gli anni ’70 e ’80.
‘Gli assassini del 7 gennaio 1978 girano impuniti per Roma. La magistratura non è stata in grado d’individuarli. Un dato di oggettiva gravità che non si può ignorare. Anni di ricerche mi hanno portato a escludere l’esistenza dei famigerati misteri che nel nostro Paese taluni amano fantasticare. Si trattò invece dell’azione criminale concepita da un ambiente marginale dell’estrema sinistra, ossessionato dall’antifascismo militante. Rozzi macellai che uccisero secondo la logica dello “spontaneismo armato”. Ottenendo una bocciatura politica da quanti miravano ormai al cuore dello Stato. La gravità delle reazioni che l’eccidio avrebbe innescato strideva con l’arretratezza dell’obiettivo: ragazzini inermi di una sede missina di periferia. Alla pochezza dei contenuti della rivendicazione, con tanto di voce regalata agli investigatori tramite nastro magnetico, corrisposero le condotte dissennate degli assassini. Disseminarono indizi macroscopici. Uno di loro partecipò alla carneficina azzoppato, facendosi notare da un testimone. Nell’area extraparlamentare poi la matrice apparve subito chiara: la componente interna al “movimento” che proveniva dal disciolto comitato comunista di Centocelle. L’indagine non presentava particolari difficoltà. Eppure finì con un nulla di fatto. Perché Francesco Ciavatta e Franco Bigonzetti erano e restano vittime di serie B. Al pari di Stefano Recchioni, ucciso in piazza nelle ore successive all’attentato. Un omicidio consumato all’aperto, alla presenza di un centinaio di persone. Eppure l’istruttoria non portò a nulla. A 47 anni non ha più senso reclamare la punizione dei colpevoli o dei distratti. Meglio una riflessione trasversale sui danni politici causati al paese dagli Anni di piombo.
La ricorrenza di via Acca Larenzia rappresenta un’occasione persa per propiziare una memoria comune. Perché la tragedia del Tuscolano s’intreccia con gli omicidi di ragazzi di sinistra, avvenuti a Roma prima e dopo il 7 gennaio 1978. Walter Rossi, Roberto Scialabba e Ivo Zini. Altro sangue innocente versato in una guerra da cui nessuno è uscito vincitore. Ricordarli insieme rappresenterebbe un gesto di civiltà.
Anche l’arma più celebre usata nella strage di Acca Larenzia aiuta a comprendere l’importanza di una memoria condivisa e senza discriminazioni. La Skorpion della vergogna fu usata anche per assassinare Ezio Tarantelli, sindacalista di sinistra, Lando Conti, ex sindaco repubblicano di Firenze, e Roberto Ruffilli, senatore democristiano. Uccise in tutte le direzioni, unendo nel dolore ogni sponda politica. Era stata acquistata in un’armeria di Sanremo. Ma nel 1977 sparì nel nulla. Un noto cantante e un commissario di polizia la contesero al contrario. Uno accusò l’altro di esserne in possesso. Il bugiardo tra i due avrebbe dovuto spiegare come fosse finita nelle mani degli assassini di via Acca Larenzia. Ma anche quell’inchiesta non arrivò a nulla. Venne taciuta alla stampa prima di finire imbrigliata nelle maglie della prescrizione dei reati. Una fine tutta italiana. La ricorrenza della strage di via Acca Larenzia è in effetti una vergogna. Ma a doversi vergognare non sono quelli onorano le vittime’, osserva Valerio Cutonilli, avvocato e autore di “Chi sparò ad Acca Larenzia?”.
La rimozione nei giorni scorsi, per decisione di Roma Capitale, della targa commemorativa di Stefano Recchioni (poi rimessa), l’ultima (in ordine di tempo) delle 3 vittime della strage di Acca Larenzia avvenuta tra il 7 e l’8 gennaio 1978, è stata la ragione per cui il presidente della Regione Lazio, Francesco Rocca, ha deciso di non commemorare insieme al Comune (a differenza dello scorso anno) il 47esimo anniversario delle morti dei militanti del Fronte della Gioventù Franco Bigonzetti, Francesco Ciavatta e Stefano Recchioni.
Con il Comune, “l’anno scorso eravamo qua insieme, l’atteggiamento sulla targa ovviamente non mi ha messo in condizioni di poter avere una commemorazione. Io non mi sono sentito di commemorare con il Comune oggi”, ha spiegato Rocca. “Quella targa stava qui da decenni, si poteva scegliere una strada di memoria condivisa, individuare una targa comune, si potevano fare tante cose- ha continuato il presidente della Regione Lazio – Ma a distanza di pochi giorni l’ho trovata una provocazione inutile. Dopo anni ci si sveglia e si distrugge quella targa. Quando il dito indica la luna, che è la pacificazione, l’imbecille guarda il braccio. Spero che questo mio gesto porti a una riflessione per arrivare a una memoria realmente condivisa”.