Centrosinistra e referendum, tra molte sconfitte e poche vittorie

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Il referendum è un istituto giuridico contemplato dalla Costituzione della Repubblica Italiana. È uno degli strumenti, insieme alla petizione (Art.50 Cost.) e al disegno di legge di iniziativa popolare (Art. 71 Cost.), con i quali è garantita la partecipazione diretta dei cittadini alla vita politica del Paese, considerata (ex art. 3 Cost.) quale diritto inviolabile. L’ordinamento giuridico italiano ne prevede diversi tipi disciplinati da apposite leggi. Il primo referendum abrogativo si tenne nel 1974 e riguardò l’istituto del divorzio.

Il referendum del 1974 fu il primo referendum abrogativo della storia dell’Italia repubblicana. Venne indetto per abrogare la legge che nel 1970 aveva introdotto il divorzio, causando controversie e opposizioni. Conclusosi con la vittoria del “no”, dunque con la conferma della legge, aprì le porte ad una stagione caratterizzata da un crescente uso di tale strumento, soprattutto per iniziativa del partito radicale.

Vi sono diversi tipi di referendum previsti dall’ordinamento italiano:

il referendum abrogativo di leggi e atti aventi forza di legge (articolo 75 della costituzione);
il referendum sulle leggi costituzionali e di revisione costituzionale (articolo 138);
il referendum riguardante la fusione di regioni esistenti o la creazione di nuove regioni (articolo 132 comma 1);
il referendum riguardante il passaggio da una Regione a un’altra di Province o Comuni (articolo 132 comma 2);
il referendum riguardante gli statuti regionali (articolo 121),
il referendum regionale su leggi e provvedimenti amministrativi della Regione (articolo 123)
Altri referendum a livello comunale e provinciale sono poi previsti da fonti sub-costituzionali.

La disciplina normativa dei requisiti e del procedimento è costituita, oltre che dalla Costituzione, anche dalla legge 25 maggio 1970, n. 352, e da sentenze della Corte costituzionale della Repubblica.

Nel 2025 ci saranno probabilmente tre referendum, visto che sono state raccolte le firme necessarie – almeno 500mila – per indire dei referendum abrogativi in tre diversi settori: uno per cancellare il Jobs Act, la legge sul lavoro introdotta nel 2015 dal governo di Matteo Renzi; uno sull’autonomia differenziata, per cancellare la legge introdotta lo scorso giugno dal governo di Giorgia Meloni che consente di attribuire maggiori poteri alle regioni; e infine uno sulla concessione della cittadinanza, per ridurre da 10 a 5 gli anni in cui uno straniero deve risiedere in Italia prima di poterla chiedere.
Le raccolte delle firme sono state promosse in varie modalità da partiti, associazioni e movimenti di centrosinistra, fortemente compatti in opposizione al governo di destra. I tre referendum assumono un valore largamente politico, iniziative che possano mettere in difficoltà il governo, che guarda con ostilità a queste proposte.

La prima fase del referendum, cioè la raccolta delle firme, è stata un discreto successo: sia per il consistente numero di adesioni (in particolare, per quello sul Jobs Act promosso dalla CGIL, ci sono stati oltre 4 milioni di sottoscrizioni), sia per la rapidità con cui, per il quesito sull’autonomia e ancor più su quello sulla cittadinanza, si è raggiunto il risultato minimo delle 500mila firme, ma il successo finale appare molto meno scontato. Perché un referendum abrogativo sia valido, infatti, serve che si raggiunga il quorum, cioè che vada a votare più della metà degli aventi diritto, e che i favorevoli al quesito risultino la maggioranza dei votanti. Ma i tassi di astensionismo ormai strutturalmente elevatissimi e una generale disaffezione popolare nei confronti dei referendum rendono questo obiettivo complicato.

La legge prevede che i quesiti debbano prima superare il giudizio della Corte di Cassazione e della Corte Costituzionale (che dovranno verificare rispettivamente la validità delle firme raccolte e l’ammissibilità dell’iniziativa sul piano giuridico e costituzionale); poi il prossimo febbraio spetterà al governo, d’intesa col presidente della Repubblica, individuare il giorno per il voto, che dovrà comunque essere compreso tra il 15 aprile e il 15 giugno. I promotori dei referendum stanno già invocando, in linea con quanto succede di prassi in questi casi, quello che viene chiamato election day, cioè di votare per tutti e tre i referendum in uno stesso giorno, perché questo ovviamente aumenterebbe le possibilità di raggiungere il quorum. Non è detto che il governo acconsentirà.
Perché i referendum siano validi, dovranno andare a votare più di 25,5 milioni di persone, cioè appunto più della metà dei 50,86 milioni di aventi diritto (in cui sono compresi anche i 4,7 milioni di elettori residenti all’estero). È un numero molto alto: non solo in termini assoluti, ma soprattutto in rapporto al livello di partecipazione al voto ormai consolidato in Italia. Significherebbe che a votare per un referendum abrogativo sarebbero più delle persone che hanno votato alle ultime elezioni europee del giugno 2024, quando l’affluenza è stata del 48,3 per cento.

Ricordiamo che su 77 referendum abrogativi fin qui svolti (i primi nel maggio del 1974, gli ultimi nel giugno del 2022), è stato raggiunto il quorum in 39 occasioni: 35 di questi però sono concentrati tra il 1974 e il 1995. Da quel momento in poi, su 29 referendum, solo 4 (quelli svoltisi nel giugno del 2011) sono stati validi.

Negli anni Settanta e Ottanta, la partecipazione al dibattito politico e l’affluenza elettorale erano in generale più alte, e l’Italia era anzi uno dei paesi occidentali col più alto tasso di affluenza media. Inoltre, le prime iniziative riguardarono temi estremamente sentiti dalle persone e che generarono accalorati dibattiti sui media: il divorzio nel 1974, il finanziamento pubblico ai partiti nel 1978, l’aborto nel 1981, la scala mobile (cioè l’adeguamento automatico degli stipendi all’inflazione) nel 1985, tutti quesiti su cui i votanti furono numerosissimi (tra il 77 e l’87 per cento), e che valsero a dare una grande legittimazione all’istituto del referendum.

Poi, c’è stato il declino del referendum, visto che di questo strumento si è finito un po’ con l’abusare, proponendo quesiti su temi di interesse meno interessanti, o su cui era estremamente difficile per molte persone farsi un’opinione informata. Ma soprattutto, più nel complesso, era cambiato l’approccio degli italiani alla vita politica: ci sono stati sempre di più un disinteresse verso il dibattito giornalistico e parlamentare, una crescente sfiducia nei confronti dei partiti e un tasso di affluenza che di conseguenza tendeva a scendere costantemente.

Questa difficoltà a raggiungere il quorum sta diventando ancor più eclatante da quando, a partire dal 2021, in Italia è stata introdotta la possibilità di raccogliere le firme per indire la consultazione anche in formato digitale. Per i promotori è molto più agevole ed economico raggiungere la soglia delle 500mila sottoscrizioni: non serve più allestire gazebo in giro per le città, avere volontari che passano ore a raccogliere ed autenticare le firme, con costi e impegni notevoli. Ma la maggiore facilità di ottenere adesioni rende ancor più evidente le complicazioni sul raggiungimento del quorum: si rischia insomma di avere un numero sempre maggiore di quesiti referendari che sempre più raramente hanno come esito un referendum valido, svilendo ancora di più un istituto che è considerato tra i più preziosi della democrazia.

Il deputato del Partito Democratico Stefano Ceccanti aveva suggerito di innalzare da 500 a 800mila il numero di firme necessarie per indire il referendum e di rendere flessibile il quorum, prevedendo cioè la validità della consultazione a patto che andasse a votare più della metà di coloro che avevano votato alle ultime elezioni politiche nazionali. Nessuna di queste proposte è stata però approvata in parlamento.

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