Elezioni americane tra piattaforme online e giornalismo lesivo o approssimativo

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Zuckerberg ha illustrato le sue posizioni in una lettera a Jim Jordan, presidente repubblicano della commissione giustizia, che sta indagando sulla moderazione dei contenuti sulle piattaforme online.

Il patron di Meta inoltre ha precisato che in queste elezioni intende essere “neutrale” e che quindi non pianifica alcun contributo simile a quello del 2020, quando donò 400 milioni per aiutare il governo a gestire le elezioni col Covid, attirandosi l’accusa dei repubblicani di aver preferito Joe Biden, cosa che in sostanza fece schierandosi di fatto a favore delle posizioni del candidato democratico che fu poi eletto.

“Penso che abbiamo fatto delle scelte che, con il senno di poi e con nuove informazioni, non faremmo oggi. Mi dispiace di non essere stati più espliciti al riguardo, come ho detto ai nostri team all’epoca, sono fermamente convinto che non dovremmo compromettere i nostri standard sui contenuti a causa delle pressioni di qualsiasi amministrazione. E siamo pronti a reagire se qualcosa del genere dovesse accadere di nuovo”.

La rivelazione del patron di Meta risulta particolarmente importante in questi giorni in cui è esploso il caso dell’arresto di Pavel Durov, il patron di Telegram che la giustizia francese ha messo sotto accusa considerandolo di fatto complice dei crimini che vengono compiuti anche con l’ausilio del suo servizio di messaggistica. A Durov vengono imputati da un lato un deficit di controllo e, ancor di più, il rifiuto di violare gli elevati standard di privacy adottati da Telegram. Proprio il caso denunciato da Zuckerberg, però, non fa che rafforzare l’allarme lanciato dai molti che in queste ore hanno avvertito che l’arresto di Durov apre scenari inquietanti rispetto alla libertà di parola e si interrogano su dove si collochi il confine tra legittima la moderazione dei contenuti da un lato e la censura e la pressione politica, magari anche strumentale, dall’altro.

Ci sono forze politiche che inventano letteralmente delle notizie e poi ci costruiscono sopra una polemica con il fine di ottenere maggior consenso. In America, le uscite di Trump e di Vance sono spesso collegate a fake news o a notizie incontrollate che obbligano i giornalisti a vagliarle criticamente, prendendone spesso le distanze.

In Italia, il caso della supposta inchiesta giudiziaria sulla sorella della presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, impone nuove riflessioni. Ripassiamo prima i fatti. Un giornale di destra tira fuori la supposta notizia. La presidente del Consiglio si aggancia alla supposta notizia recitando, com’è successo altre volte, il ruolo di vittima e reiterando una frequente polemica contro i poteri forti, la magistratura, la sinistra, i giornalisti e quant’altro e recitando la pantomima dell’ingiusto attacco altrui da cui ella si difende con indignazione e andando al contrattacco. C’è da sottolineare che questa modalità di polemica è molto sottile dal punto di vista psicologico perché sembra sempre che lei e la sua parte politica si difendano da un attacco ingiusto e da chi non accetta che la Meloni, e la destra, governino.

Come si dovrebbe comportare una testata giornalistica di fronte a una notizia non vera o comunque non vera fino a prova contraria com’è stata questa sull’indagine giudiziaria sulla sorella della premier? Ricordiamo che la prima cosa che un giornalista deve fare di fronte a una supposta notizia è quella di verificarla, nel caso di Arianna Meloni verificare che ci sia davvero un’inchiesta in corso, che sia stata iscritta al registro degli indagati o che abbia ricevuto un avviso di garanzia. Se la notizia è vera si approfondisce il caso giudiziario e si dà conto delle polemiche. Se invece, come in questo caso, la notizia appare soltanto un rumor, si pone il problema se darla lo stesso.

Certamente è giusto darla perché il giornalismo non può ignorare anche un rumor. Tuttavia, nel darla, andrebbe continuamente ricordato che al momento si tratta di una notizia non confermata, e quindi per ciò stesso inesistente, o che potrebbe essere anche una fake news a tutti gli effetti.

Inoltre, la testata giornalistica non dovrebbe neppure farsi trascinare nel gorgo di una fake news poi commentata ad uso esclusivo di una parte politica com’è stato il caso, non unico peraltro, della sorella della Meloni. Quindi dare troppo spazio alle proteste e all’indignazione della Meloni e dei suoi accoliti come se ci si trovasse al momento non di fronte a una non notizia o a una fake new (peraltro forse anche inventata ad arte, chi lo sa?) ma a una notizia vera e comprovata, non sembra una linea di condotta accettabile.

Se non si ricorda questa semplice verità, nello stesso contesto in cui viene riportata la non notizia o la falsa notizia, non si fa buon giornalismo.

Il New York Times adotta spesso formule del genere quando qualche esponente politico dice delle cose che non può provare essere vere. Proprio pochi giorni fa un titolo suonava così: “Vance Defends Unsubstantiated Claims About Immigration and Crime”, ovvero “Vance difende infondate lamentele su immigrati e crimine”. In sostanza, Vance accreditava il legame tra maggiore immigrazione e maggiore crimine senza aver citato alcuna fonte a riprova di ciò.

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