Sono stati 30 giorni intensi, nella campagna elettorale per le Presidenziali USA 2024, fra l’uscita di Joe Biden, l’ingresso di Kamala Harris e l’attentato a Donald Trump. Intensi anche dal punto di vista della comunicazione, ormai sempre più concentrata sui social network: Harris che apre un account su TikTok e anche assorbe il profilo di Biden, Trump che torna a postare su Twitter mentre viene intervistato in diretta da Elon Musk.
La discesa in campo di Harris è accompagnata da una strategia di comunicazione molto aggressiva, che punta a compensare o almeno a ridurre il divario di presenza e visibilità con Trump nel minor tempo possibile – ha spiegato Roberto Esposito, CEO di DeRev – Nell’ultimo mese, Harris ha pubblicato oltre il doppio dei post di Trump, 436 contro 167, di cui 204 su X (Twitter, ndr) e 138 su Facebook”. E le persone sembrano premiare questa scelta: “I post di Harris hanno il 12,96% di interazioni (il rapporto fra reazioni e follower, ndr) mentre Trump si ferma al 4,92%. E in termini assoluti lei ha 75,6 milioni di interazioni nell’ultimo mese contro i 57,8 milioni di lui”. Tutto questo è fortissimamente influenzato dalla presenza di entrambi su TikTok, dove Harris ha quasi il 49% di interazioni (contro lo 0,38% su Twitter e lo 0,59% su Facebook) e Trump sta al 17,6% (contro lo 0,39% su Facebook e lo 0,45% su Twitter).
La seconda piattaforma più usata dai due è Instagram, fortemente e sorprendentemente sottovalutata (70 post per Harris e 79 per Trump) nonostante che per entrambi abbia generato una post interaction di tutto rispetto: 2,29% per Harris, 1,79% per Trump. Fra i 25 post dei due candidati con più interazioni nell’ultimo mese, quelli su Instagram iniziano a comparire dalla posizione numero 8, mentre è necessario scendere oltre la 15 per trovare Twitter, che negli USA è ancora parecchio amato ma dà risultati sempre meno significativi. Peggio fa solo Facebook, che è ormai praticamente insignificante per quel che riguarda la comunicazione politica.
In principio fu Barack Obama: il 44esimo presidente degli Stati Uniti, noto anche per essere particolarmente attivo online e soprattutto sui social network, fu il primo per cui, il 18 maggio del 2015, venne creato su Twitter l’account Potus, che poi è passato di mano in mano, prima a Donald Trump e in seguito a Joe Biden.
Gli americani sono fissati con le sigle e le usano per più o meno tutto, anche grazie a una lingua che (diversamente dall’italiano) si presta a questa abitudine: Potus, che significa President of the United States, non è nata con i social ma molto, molto prima. Secondo più fonti, già dalla fine dell’Ottocento serviva per accorciare i riferimenti al presidente nelle trasmissioni con il telegrafo, in cui la brevità era importante. Flotus, che vuol dire First lady of the United States, è parecchio più recente e risale probabilmente agli anni Ottanta. È però grazie a Twitter che entrambe sono note anche al di fuori della Casa Bianca.
La conseguenza è stata che da maggio 2015 ogni presidente degli USA ha due account su Twitter (e anche su Instagram, con l’arrivo di Biden): quello personale e quello professionale, cioè appunto Potus. E lo stesso vale anche per le loro mogli e per i/le loro vicepresidenti (in questo caso, l’account è VP). Ovviamente su questi profili hanno meno libertà di manovra rispetto a quella che hanno su quelli personali, sia perché sono comunque profili istituzionali e sono gestiti dall’ufficio presidenziale sia perché alla fine del mandato devono essere in qualche modo restituiti.
Questa separazione è talmente vera ed evidente che nel gennaio del 2021, quando Trump venne cacciato da Twitter dopo che i suoi cinguettii violenti portarono all’assalto al Campidoglio, il deplatforming riguardò solo il suo account personale, mentre gli fu lasciata la possibilità di usare quello istituzionale sino al 20 del mese, giorno dell’insediamento di Biden e del passaggio di consegne.
Passaggio di consegne che, appunto dalla seconda presidenza Obama in poi, riguarda anche gli account Potus, Flotus e VP, con i profili che vengono completamente svuotati e messi a disposizione dei nuovi eletti: da Barack e Michelle Obama a Donald e Melania Trump dopo le elezioni del 2016 (a inizio 2017, nella pratica) e poi da Donald e Melania Trump a Joe e Jill Biden dopo le elezioni del 2020 (a inizio 2021, cioè).
L’aspetto interessante è che i cinguettii dei precedenti presidenti, delle loro mogli e vicepresidenti non si perdono ma vengono archiviati, in profili dedicati e chiusi: su Twitter, quelli di Barack Obama e di Michelle Obama sono rispettivamente Potus44 e Flotus44 e quelli di Donald Trump e Melania Trump sono Potus45 e Flotus45, mentre quello di Biden da vice è VP44. Ancora non c’è conferma sul fatto che succederà lo stesso con quelli della presidenza Biden, perché dal Twitter di Elon Musk non si sa mai cosa aspettarsi, ma è molto probabile che accada.
Ci sono altri due nodi da chiarire, parlando di quello che accadrà dopo le elezioni presidenziali di novembre. Il primo riguarda l’eventuale vittoria di Kamala Harris: lei diventerebbe Potus, perché la sigla è neutra e senza genere, ma lo stesso non si può dire per Flotus. Il marito di Harris, che si chiama Douglas Craig Emhoff e fa l’avvocato, non è certo una first lady e dunque difficilmente utilizzerà la dicitura Flotus per l’account istituzionale: è al momento è il Second gentleman of the United States (perché è il partner della vicepresidente), che in sigla è Sgotus, ma come si metterebbero le cose se la moglie vincesse le elezioni? Emhoff sarebbe il First gentleman of the United States, che però in sigla sarebbe il non proprio gradevole Fgotus. Sarà questo il suo nome in codice, o i responsabili della comunicazione della Casa Bianca inventeranno altro?
Se vincesse Trump, questo problema non ci sarebbe ma ce ne sarebbero forse altri: riprenderebbe a usare Twitter, dove è stato riammesso ma dove non posta più nulla da agosto 2023? E se lo facesse, come lo farebbe? Con quale atteggiamento? Soprattutto: con quanta libertà? A gennaio 2021, quando fu espulso dai social, Facebook e Twitter ammisero che i vari leader mondiali disponevano di privilegi speciali che li rendevano meno soggetti alle regole su quello che si può dire e non dire sui social, una maggiore libertà di azione e di espressione, in qualche modo giustificata dal loro ruolo istituzionale. Con senno di poi, questo renderli primi inter pares fu un errore e da quello che siamo stati in grado di ricostruire favoritismi del genere non ci sarebbero più (nemmeno su TikTok): da Meta ci hanno spiegato che è possibile che un contenuto venga lasciato visibile anche se vìola le linee guida, ma con un’etichetta che lo identifica come tale, nel caso in cui si tratti di “contenuti rilevanti” o “importanti per il pubblico interesse”.