Fast fashion: il nuovo passaporto digitale

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In Europa, non sarà più possibile distruggere gli abiti invenduti. Le nuove norme di “ecodesign” hanno ricevuto il via libera definitivo per diventare legge limitante in tutta la comunità europea. “Dobbiamo liberarci del modello ‘prendi-produci-smaltisci’ ormai obsoleto: apriamo la strada ad una nuova era, per cui i consumatori possono fare scelte ambientali più intelligenti” ha dichiaro Alessandra Moretti, relatrice per l’Eurocamera che aveva raggiunto il compromesso, ora sempre più vicino a diventare legge, a dicembre dello scorso anno.

Secondo i dati del Parlamento europeo, l’industria tessile è la terza più inquinante dopo quella energetica ed agraria: il 10% delle emissioni di gas serra globali sono provocate proprio dalle fabbriche di fast fashion asiatiche ancora alimentate a gas e carbone. Inoltre, la necessità di stare al passo con i velocissimi ed effimeri trend social fa finire ben l’85% di prodotto in discarica e basta lavare questi tessuti sintetici per far accumulare mezzo milione di tonnellate di microplastiche sul fondo degli oceani, ogni anno: come può essere sostenibile distruggerli?

Ed infatti, il divieto di distruzione dei vestiti invenduti è il primo pilastro fondamentale della nuova legge, insieme alla richiesta dei requisiti minimi per la progettazione ecocompatibile sul mercato europeo ed il passaporto digitale contenente tutte le informazioni sul prodotto acquistato. In pratica, ogni prodotto dovrà essere fornito di un’etichetta in grado di assicurare estrema trasparenza ai consumatori: scansionando un QR code, sarà possibile ricostruire l’intero ciclo vitale dell’oggetto (dai materiali al luogo di produzione, fino alle corrette modalità di smaltimento) per decidere, in tutta onestà, se sia davvero necessario acquistare ancora e ancora.

Il 69% dei cittadini europei vorrebbe che le società fossero più trasparenti, per permettere loro di fare acquisti etici. Il passaporto digitale potrebbe effettivamente segnare l’inizio di una nuova era in cui le aziende smettono di fare “greenwashing” (campagna di sostenibilità fittizia, portata avanti per convincere ad acquistare i propri prodotti, spesso ad un prezzo maggiorato) e si impegnano nel pratico, affinché il nostro impatto sul mondo sia sempre (e finalmente) più vicino allo zero.

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