“L’infallibile sondaggista Alessandra Ghisleri sente aria di astensionismo crescente”. Lo sottolinea Alessandro De Angelis in un commento su ‘La Stampa’.
De Angelis assicura che “l’antipolitica non c’entra. Si parla di un ‘presunto’ ritorno di Tangentopoli per l’inchiesta ligure. E il bis di Sergio Rizzo che dopo “La casta” torna a gettare discredito sulla politica con un altro libro. “La casta non se ne è mai andata, anzi è pure peggiorata”. Rizzo, come anche Michele Serra, contesta anche il mandato popolare a governare che la destra ha acquisito alle politiche del 2022. Mandato scarso – dicono – perché hanno preso i voti del 26,7% del corpo elettorale e se gli italiani non votano, vengono arruolati di fatto nell’esercito progressista, che non ha perso, anzi, avrebbe perso la destra che ha vinto. E’ questo il parere dei commentatori anti-Meloni che si ripropongono di tornare a sfoderare anche per il voto europeo.
In occasione di ogni tornata elettorale, a latere degli accesi dibattiti tra le opposte fazioni, viene sempre nominato l’astensionismo. Se da una parte infatti i politici generalmente tendano a non riferirsi spesso al fenomeno, sono invece i giornalisti a chiamarlo in causa più frequentemente, soprattutto durante i giorni di silenzio elettorale immediatamente precedenti al voto quando rimane uno dei pochi argomenti trattabili. Ma cos’è realmente l’astensione? È davvero solo la mancata espressione di un voto valido?
Lo studio dei comportamenti elettorali da sempre ha dedicato all’astensione un’attenzione nettamente inferiore rispetto a quella riservata invece ai cosiddetti voti validi, banalmente perché nella maggior parte dei casi solo questi ultimi concorrono a definire il risultato di una consultazione. A partire però dagli anni ’90, il significativo irrobustirsi della forza numerica del fenomeno in quasi tutte le democrazie rappresentative ha contribuito ad accrescere l’attenzione sull’indagine del non voto, stimolando riflessioni e analisi. Prima ancora di ragionare sulle cause dell’astensionismo, un primo aspetto da chiarire è da cosa è composto il fenomeno stesso, ovvero la differenza tra non voto e voto non valido. Sebbene in letteratura non si rilevi una posizione ampiamente condivisa in grado di chiarire concettualmente e a livello terminologico come considerare l’uno e l’altro, convenzionalmente nei lavori più recenti si parla di “non voto” per descrivere l’atto di non recarsi alle urne, mentre il voto non valido identifica invece le cosiddette schede bianche e nulle.
Il dato calante degli affluenti al voto non tiene conto del dato costante, dal 1979, sull’affluenza al voto. “A partire dalle elezioni del 1979 – annota Openpolis – l’affluenza alle consultazioni parlamentari ha subito un progressivo e quasi continuo calo che l’ha portata dal 93,4% del 1976 al 63,8% del 2022. Ma se in oltre 30 anni l’affluenza è calata di 10 punti, passando da oltre il 90% fino a valori comunque superiori all’80%, nel successivo quindicennio il calo ha subito una drastica accelerazione. Tra il 2008 e il 2022 infatti la quota di elettori che si sono recati alle urne si è ridotta di quasi 17 punti percentuali”. Colpa della destra? Del linguaggio aggressivo di Meloni? Del campo largo che non decolla? Della casta che ruba? No. Sono tutte corbellerie queste ultime. La colpa, o meglio la spiegazione, risiede nel fatto che questa è la tendenza in tutte le democrazie occidentali soprattutto dopo il crollo delle ideologie.
Secondo un focus del Messaggero quando l’affluenza è in calo in elezioni come quelle dell’8 e 9 giugno che vengono considerate elezioni di mid-term per il governo Meloni sarebbero proprio i supporter della maggioranza quelli meno motivati. Ma è davvero così? Il fattore delle due leader che scendono in campo è così trascurabile? Difficile crederlo. Anzi, la scelta di Meloni e Schlein – a dispetto della lagna sulla presenza post-voto a Bruxelles lanciata da Prodi e raccolta dal M5S – avrà come effetto sicuramente quello di sospingere verso le urne un numero maggiore di elettori. Particolare ovvio ma fin qui trascurato. Ora i sondaggisti dicono che la soglia psicologica da non infrangere sarebbe quella del 50%: auspichiamo che venga abbondantemente superata e che dopo ci si risparmi il lamento sui non votanti come arma delegittimante di chi ha preso più voti. In democrazia decide chi vota, chi non lo fa ha scelto di non avere voce e non è il caso di attribuirgli bandierine non volute.
La differenza tra i due termini, che può sembrare apparentemente sottile, diventa invece significativa quando si vuole misurare l’astensionismo, cioè sulla consistenza reale espressa solitamente in dati percentuali. Generalmente infatti l’ampiezza del non voto viene calcolata come differenza tra il numero totale degli aventi diritto al cosiddetto elettorato attivo e il numero dei voti effettivamente espressi. Porre la questione in questi termini solleva però non solo il problema della definizione degli aventi diritto al voto, ma anche di come valutare le schede bianche e nulle. Nonostante sia evidente come i voti non validi possano derivare da errori materiali, numerose indagini rilevano come nella maggior parte dei casi esprimano invece gesti dotati di senso politico, ovvero un rifiuto di scegliere. In questo senso, le ragioni alla base di questi particolari comportamenti elettorali risultano paragonabili a quelle che muovono il non voto.
Definire quali siano le motivazioni che spingono un elettore a non esprimere un voto valido non è semplice, in primis perché come abbiamo visto manca una definizione chiara e ampiamente condivisa su cosa sia l’astensione. Gli astensionisti non costituiscono infatti un blocco compatto, né sociologicamente, né politicamente. Il non voto esprime sia un difetto di integrazione nella società, sia una forma di contestazione politica e molti comportamenti di ritiro elettorale non corrispondono all’astensione per indifferenza ed esclusione sociale, ma testimoniano piuttosto un’individualizzazione della società, una presa di distanza dalla politica, oppure ancora una forma di politicizzazione critica e negativa che porta a un utilizzo strategico della scheda elettorale. Numerose ricerche evidenziano come nelle democrazie occidentali l’astensionismo non smetta di crescere, nonostante i tipici fattori socio-economici ad esso correlati – quali ad esempio l’innalzamento del livello di istruzione e l’ampliamento delle classi medie – siano sempre di più diffusi tra la popolazione.
Molti studiosi – soprattutto europei – ritengono l’astensione una manifestazione di malessere e uno dei principali indicatori della crisi della
L’Italia per lungo tempo è stata caratterizzata da un tasso di partecipazione elettorale tra i più elevati, questo anche per effetto dell’obbligatorietà del voto in vigore fino al 1993, sebbene la sanzione prevista fosse prevalentemente simbolica e scarsamente applicata. Ad oggi però il nostro Paese, con un tasso di astensionismo che si attesta mediamente intorno al 40%, non rappresenta più un’eccezione. Le ragioni sono da ricercarsi soprattutto nelle rilevanti trasformazioni politiche intervenute negli ultimi anni, quali ad esempio le modifiche del sistema elettorale e alla crisi e lo smantellamento del sistema dei partiti, che hanno contribuito alla normalizzazione dell’anomalia partecipativa italiana che caratterizzò i primi cinquant’anni della storia della Repubblica. Negli ultimi trent’anni la partecipazione elettorale in Italia è andata costantemente diminuendo, interessando tutti i tipi di consultazioni in tutto il territorio nazionale. L’astensionismo si è trasformato, passando da aspetto marginale e fisiologico a fenomeno politicamente rilevante mosso da motivazioni soggettive, designando dunque il non voto come una tendenza di carattere generale e di medio-lungo periodo.
E’ un ritornello che si sente ripetere un po’ ovunque quello sull’astensione massiccia. E’ come se già si fosse preparati, in caso di un exploit della destra, a dire: guardate che i veri vincitori sono quelli che non hanno votato.