Il punto di non ritorno delle carceri italiane

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Può esserci un punto di non ritorno per lo stato disumano delle carceri italiane? Possiamo ancora, sinceramente, non avere vergogna per le condizioni inaccettabili in cui vivono i detenuti in Italia?

Analizzare in profondità

La verità è che quel sentimento di civiltà, il quale dovrebbe scuotere la dignità di un paese di fronte alla disumanità, è stato tradito da una patologica menzogna che ha spezzato le radici profonde della nostra identità culturale. È infatti stata una falsa promessa l’aver detto in Europa, poco dopo la condanna della CEDU nel 2013, per il caso Torreggiani contro Italia, che avremmo affrontato il problema endemico e strutturale del sovraffollamento delle carceri italiane in modo civile. Poco è valso avere introdotto quell’art. 35-ter dell’ordinamento penitenziario che, anziché essere una soluzione, ha certificato la pratica di sottoporre i detenuti a trattamenti disumani e degradanti in violazione dell’art. 3 CEDU, quantificando, in un rapporto perverso tra giorni e sofferenze, forme di pseudo risarcimento.

Passato e presente

Da eredi di un passato nobile sul fronte dei diritti civili, ormai decisamente lontano, ci ritroviamo incapaci di trovare soluzioni, in una ignavia collettiva che infama la memoria dei padri costituenti che avevano posto a fondamento della Repubblica il riconoscimento dei diritti fondamentali dell’uomo. Nel dopoguerra si era scoperto di aver sostenuto e condiviso regimi che avevano fatto dello strumento detentivo il cardine del terrore e dell’orrore, esprimendo una bestialità genocida senza precedenti. La realtà è che la spinta emotiva di quegli uomini del dopoguerra si è, nel tempo, erosa in un processo egoistico collettivo dove solidarietà e umanità sono stati fagocitati dalla rinascita di istinti primordiali e divisivi.Ed ancora, la fragilità sistemica dell’attuale classe politica rappresenta il vero tradimento ed attentato ai valori della Costituzione repubblicana: è il segno dell’incapacità di trovare soluzioni a quell’argomento scomodo che è il carcere e l’esecuzione penale. D’altronde, cosa ci potevamo aspettare dal susseguirsi di scelte di politica criminale affidate alla volubile “pancia” del Paese, ai like sui social, agli irresponsabili spot elettorali alimentati da odio e scontro sociale?In queste condizioni è molto più difficile per uno Stato avere il coraggio di fare scelte lungimiranti in materia penitenziaria. La richiesta di provvedimenti clemenziali, quali la grazia e l’indulto, viene costantemente demonizzata come segno di debolezza e fragilità nei confronti di coloro che devono pagarla fino in fondo. Insomma, non c’è speranza per chi, in detenzione, è sottoposto a una costante condizione disumana e degradante, e non gli rimane che subire quel pragmatico cinismo e reagire con scelte disperate, autolesionistiche e, nell’estremo, suicidarie, come ultimo atto di protesta nei confronti di chi ha tradito la speranza e i doveri inderogabili di solidarietà dell’articolo 2 della Costituzione.

Come reagire?

Non bastano neanche più i moniti del Presidente della Repubblica[1], in questo ‘autunno caldo’ del 2024, a scuotere le coscienze di un Paese che è arrivato al capolinea sul fronte dei diritti umani per chi è ristretto in carcere. Sembra, ormai, non interessare neanche più la certezza della pena, tanto meno la sua funzione rieducativa, ma piuttosto imprimere la deterrenza di un messaggio sinistro, ove il carcere è ormai diventato quel luogo ove lasciare “…ogne speranza, voi ch’intrate”.È venuto il momento che le forze civili del nostro Paese, oggi più che mai sbigottite a prospettive disumanitarie, quali i centri per migranti in Albania, reagiscano rivendicando il valore dei diritti umani cannibalizzati da un sistema giudiziario e da una logica del potere disumano e degradante.

A cura di Avvocato Fabio Federico (Studio Legale Federico & Partners)

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