Un nuovo capitolo delle elezioni presidenziali americane si apre con l’accusa partita direttamente dal quartier generale di Donald Trump, di «sfacciata» interferenza del Partito Laburista britannico. Trump ha puntato il dito contro il primo ministro Keir Starmer, reo di aver permesso ai volontari del suo partito di collaborare apertamente con la campagna della vicepresidente Kamala Harris. Un’accusa che ha subito fatto il giro di Washington, con il team di Trump che ha presentato una denuncia ufficiale alla Federal Election Commission (Fec), chiedendo un’indagine approfondita su quelli che definisce «contributi illegali» da parte del Labour.
La collaborazione tra attivisti stranieri e campagne elettorali americane non è una novità: è consuetudine che i volontari del Partito Laburista, storicamente affiliato ai Democratici, si muovano oltre oceano in periodi di elezioni. Basterebbe ricordare che anche l’attuale segretaria del Pd, Elly Schlein aveva fatto pratica proprio tra i Dem durante le due campagne Obama.
Il leader British, nel frattempo, ha minimizzato l’accaduto, sostenendo che «Lo stanno facendo nel loro tempo libero, lo stanno facendo come volontari, stanno pensando con altri volontari laggiù».
La questione si gioca sulla sottile linea tra volontariato e contributi finanziari. Secondo la legge americana, infatti, i cittadini stranieri possono partecipare come volontari nelle campagne elettorali, ma non possono contribuire finanziariamente. Il nodo centrale è proprio qui: la campagna di Trump ha citato un post su LinkedIn, poi cancellato, di Sofia Patel, responsabile operativa del Labour party, in cui si affermava che quasi 100 tra membri attuali ed ex del partito si sarebbero recati negli States nelle prossime settimane per sostenere Harris. Patel aggiungeva di avere ancora dieci posti liberi in North Carolina, annunciando: «sistemeremo noi il tuo alloggio».
Le dichiarazioni non convincono
Il Labour ha prontamente replicato che qualsiasi partecipazione sarebbe stata a spese dei singoli membri, con l’alloggio fornito da altri volontari. Le dichiarazioni non convincono: troppo vicine alla linea rossa delle regole elettorali statunitensi anche per la Fed, che in passato aveva multato la campagna di Bernie Sanders dopo che il Labour australiano pagò voli e cibo dei suoi volontari per recarsi negli Usa.
Ulteriore campagna contro Trump, costata 100mila dollari, compare sui siti per adulti ed è stata realizzata da lavoratori e lavoratrici del settore porno per convincere i fruitori a votare contro Trump, che nel suo programma prevede anche restrizioni in questo campo. “L’industria del porno è come il canarino nelle miniere di carbone. Siamo la prima tessera del domino a cadere quando si tratta di libertà di parola”, dice Holly Randall, regista di film per adulti con un’efficace metafora. “Sappiamo come andrà a finire se il divieto di pornografia entrerà effettivamente in vigore. Non è una cosa sciocca e non è ‘Lisistrata’ – dice Siouxsie Q, regista di porno, citando la commedia greca di Aristofane, in cui le mogli ateniesi proclamano lo sciopero del sesso contro la guerra – “Quello che succede quando si rende illegale un’industria, quando la si criminalizza, è che si attirano proprio i criminali”.