John Elkann, presidente di Stellantis, ha deciso di non presentarsi di persona in Parlamento per discutere sulla crisi Stellantis. In una lettera inviata al presidente della Commissione Attività Produttive della Camera, Alberto Luigi Gusmeroli, Elkann ha preferito mantenere le distanze, pur dichiarando “la disponibilità a un dialogo franco e rispettoso”.
Nella missiva, Elkann chiarisce che Stellantis continuerà a collaborare con il Ministero delle Imprese e del Made in Italy, restando in attesa della convocazione ufficiale da Palazzo Chigi.
Elkann, nella sua lettera, fa un chiaro riferimento alle mozioni approvate dalla Camera il 16 ottobre, che impegnano il Governo a convocare un tavolo con tutte le parti interessate entro la fine dell’anno. Una scelta che punta a discutere il futuro dell’azienda e il ruolo di Stellantis in Italia.
Il presidente del gruppo automobilistico però mette in chiaro che, dall’audizione dell’11 ottobre, non ci sono stati aggiornamenti rilevanti. Nonostante la convocazione risalisse ad agosto, Elkann ha comunicato la sua decisione con una lettera, nella quale ha dichiarato: “Non abbiamo nulla da aggiungere rispetto a quanto già illustrato dall’amministratore delegato” Carlos Tavares, il quale era stato ascoltato dai deputati l’11 ottobre. La decisione di Elkann ha suscitato una reazione immediata da parte del presidente della Camera, Lorenzo Fontana. “Apprendo con sconcerto da fonti stampa che il presidente di Stellantis non vorrebbe riferire in Parlamento sulla situazione aziendale. Mi auguro che questa posizione possa essere presto chiarita. Scavalcare il Parlamento sarebbe un atto grave”, ha dichiarato Fontana in una nota ufficiale.
Il Parlamento, tempio della rappresentanza popolare, luogo sacro del dibattito e della libertà, aveva chiamato l’erede di casa Agnelli a spiegare agli italiani quali fossero i piani di sviluppo e la strategia messa in campo per salvare i siti produttivi nel nostro Paese.
Un atto dovuto visto il sacrificio che i contribuenti italiani hanno dovuto sopportare per decenni, quando al timone c’erano il nonno Gianni e l’ad Romiti, per aiutare l’azienda a superare le cicliche crisi produttive.
Il governo rimprovera alla casa di non investire a sufficienza per raggiungere l’obiettivo di fabbricare un milione di auto all’anno in Italia, accusandolo di delocalizzare la produzione in Paesi con un costo della manodopera più basso. Stellantis ribatte che l’entità dalla produzione in Italia dipende, anzitutto, dalla domanda di auto domestica che, specie per l’elettrico, ha bisogno del sostegno degli incentivi pubblici.
Lo scontro si inserisce in una fase di grave tensione industriale per l’auto europea che, inevitabilmente, diventa anche sociale e politica. In Italia così come in Germania, dove il cancelliere Olaf Scholz ha incontrato il ceo di Volkswagen, Oliver Blume, per chiedergli conto della decisione di chiudere tre fabbriche in Germania — e una di Audi in Belgio — licenziando migliaia di dipendenti.
Il problema per i costruttori tedeschi risiede soprattutto nel ripiegamento protezionistico del mercato cinese. Nel 2017 i costruttori occidentali controllavano il 57% delle vendite in Cina; nel 2024 la quota è crollata al 35%, privandoli della principale valvola di sfogo per la sovraccapacità produttiva degli impianti europei.
Per proteggere un’industria che vale il 7% del pil e il 7% dell’occupazione, così, la Commissione Ue ha approvato un aumento dei dazi fino al 45% sulle importazioni dalla Cina di auto elettriche che, secondo Bruxelles, hanno beneficiato di ingenti incentivi pubblici. Le nuove tasse entreranno in vigore giovedì 31 ottobre, a meno di un accordo dell’ultima ora con Pechino che pare poco probabile. Per ritorsione, perciò, oltre a minacciare dazi su brandy, prodotti caseari e maiale europei, il governo cinese ha imposto ai propri costruttori di sospendere gli investimenti sull’apertura di nuove fabbriche nel Vecchio Continente.