La distanza tra Harris e Trump e quella nell’opinione pubblica in attesa del 5 novembre

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In quell’America che due anni fa ha assistito, per decisione della Corte Suprema, all’annullamento della sentenza Roe contro Wade – con la quale è stato eliminato l’accesso costituzionale all’interruzione volontaria di gravidanza in tutti gli Stati dell’Unione – il tema dell’aborto è diventato il più divisivo della campagna elettorale per le prossime presidenziali di novembre.

Tra un Donald Trump che continua le sue giravolte sul tema – il repubblicano è passato negli anni dall’essere un pro-choice convinto ad alfiere pro-life, per poi dire no alle restrizioni più severe decise dagli Stati – e una Kamala Harris secondo cui limitare la scelta delle donne è «immorale» e che ha inaugurato un tour sui “diritti riproduttivi”, sembra non esserci spazio per un dibattito ragionato sul tema. In parallelo, la questione aborto è diventata sempre più centrale per una larga fetta dell’elettorato americano: in sei Stati chiave, tra le donne under 45, ha un’importanza maggiore dell’economia, ma anche per l’intero elettorato è tra i temi più considerati, mentre appare particolarmente decisivo come necessario fattore di mobilitazione per la campagna dei democratici. Ciò sarà particolarmente vero in dieci Stati Usa, compresi territori chiave come Arizona e Nevada, in cui in coincidenza con le presidenziali i cittadini si recheranno alle urne anche per referendum in cui si voterà sui limiti statali all’interruzione di gravidanza.

L’arena politica finisce così per evidenziare sempre più quella spaccatura tra liberal e conservatori che negli Usa sta disegnando due Americhe che ormai quasi non si parlano più. Al punto che sono sempre più frequenti i casi di cittadini che decidono di andare a vivere in Stati che considerano più affini al loro background etico-politico-culturale.

Dopo l’annullamento di Roe contro Wade nel 2022, sull’aborto gli Stati sono andati in ordine sparso, alcuni espandendo i limiti all’interruzione di gravidanza, altri procedendo con restrizioni. La California ha ad esempio inserito due anni fa l’interruzione di gravidanza tra i diritti garantiti dalla propria Costituzione, mentre in 14 Stati, soprattutto al Sud, ci sono forti restrizioni poche settimane dopo l’inizio della gravidanza – eccetto specifiche emergenze mediche – e il divieto di usare la pillola abortiva. In mezzo, difficile individuare spazio per un dialogo ormai pressoché inesistente, mentre il tema della vita viene strattonato dalle parti politiche. La stessa Conferenza episcopale Usa, parlando di giorno “storico” all’annullamento della Roe contro Wade, aveva parlato di un “nuovo inizio” e della necessità di una “etica del dialogo e della cooperazione”. Un aspetto, però, che appare completamente rimosso dalla scena politica Usa.

L’ex vice presidente repubblicano Dick Cheney voterà per Kamala Harris. Lo ha detto la figlia Liz a un evento in Texas. Soprannominato dai democratici Darth Vader, per via della sua “cattiveria” politica, Cheney è stato capo dello staff della Casa Bianca sotto il presidente Gerald Ford; segretario della Difesa sotto la presidenza di George H.W. Bush e vicepresidente sotto il presidente George W. Bush, quando è stato l’architetto dell’invasione americana dell’Iraq. Aveva preso le distanze da Donald Trump nel 2022 definendolo una “minaccia per la nostra repubblica” e un “codardo”.

Donald Trump ha risposto alla decisione dell’ex vicepresidente Dick Cheney di sostenere Kamala Harris bollandolo come un “RINO (republican in name only, ndr) irrilevante, repubblicano solo di nome”.

“Dick Cheney è un RINO irrilevante, insieme a sua figlia, che ha perso con il margine più ampio nella storia della Congresso!” ha attaccato l’ex presidente in un post sul suo social Truth Social, riferendosi all’ex deputata Liz Cheney che ha perso le elezioni di Midterm nel 2022 contro un candidato sostenuto da Trump.

La sentenza per il caso dei soldi con cui Donald Trump ha comprato il silenzio della pornostar Stormy Daniels alla vigilia delle elezioni del 2016 non avverrà prima delle Presidenziali del 5 novembre. Lo ha deciso il giudice di New York Juan Merchan che ha fissato la nuova data al 26 novembre. «Questa – ha spiegato il giudice nella motivazione – non è una decisione che la Corte può prendere alla leggera ma è quella che secondo la Corte meglio tutela gli interessi della giustizia».

I legali di Trump avevano chiesto di rinviare la sentenza, che era prevista per il 18 settembre, sulla base del pronunciamento della Corte Suprema, che ha riconosciuto all’ex presidente l’immunità per le azioni commesse durante il suo mandato. Tra queste potrebbe rientrare il pagamento in nero per silenziare due donne che avevano minacciato, nel 2016, di rivelare, a pochi giorni dal voto, di aver avuto una relazione sessuale con lui.

Gli avvocati del tycoon in agosto hanno anche sostenuto di non aver tempo sufficiente per proporre un appello. La Corte suprema con un verdetto di 6-3 aveva deliberato che i presidenti non possono essere incriminati per le loro azioni nel compimento di attività ufficiali. Inoltre prove legate alle attività ufficiali dei presidenti non possono essere usate in casi che riguardano azioni compiute fuori dai perimetri istituzionali. Il procuratore di New York Alvin Bragg ha detto che il caso degli hush money riguarda la condotta personale di Trump e non atti formali e quindi non c’è alcuna ragione di rovesciare il verdetto di colpevolezza. Trump è stato ritenuto colpevole di 34 capi di accusa.

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