L’attualità di Kunta Kinte

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Immigrazione fa rima con indignazione, con indisposizione ma anche con inclusione. Parole  in contrasto tra loro che sottendono emozioni e comportamenti diversi che caratterizzano le molteplici reazioni che si hanno di fronte agli immigrati e in modo particolare di fronte agli immigrati che sbarcano in modo irregolare. L’ indifferenza di qualcuno da una parte e la  la preoccupazione di altri dalla parte opposta caratterizzano le diverse reazioni di fronte ad un fenomeno che ormai è sotto gli occhi di tutti noi e che rappresenta una caratteristica dell’era globalizzata e digitalizzata. Accoglienza èun termine che non può non essere affiancato ad immigrazione e rappresenta un diritto ed un dovere che si esprime in modi diversi. Modi che ne declinano  il degrado sociale, l’emarginazione e il reclutamento senza nome e senza dignitànell’esercito dell’economia della droga che toglie quel pizzico di umanità che rimane dopo aver attraversato l’inferno per cercare un porto sicuro. Porto sicuro che troppo spesso assume la forma di luoghi ameni, senza un briciolo di civiltà e che inevitabilmente conduce la nostra mente in un angolo buio dove i pensieri si scollegano dalle emozioni e dove la declinazione dei diritti umani perde ogni forma di ancoraggio e fa di noi spettatori inermi di uno scenario che non riusciamo a definire. Non si riesce a definire l’umano sentire di fronte a uomini e donne che non riconoscono più neppure la loro stessa umanità; soli, senza più speranza in un tempo e in uno spazio che possa contenere il dolore. Uomini e donne che vagano per le cittàcome zombi da evitare, da schifare, da rifiutare. Freud in  Il Disagio della Civiltà egregiamente ci spiega quanta fatica fa l’essere umano per integrarsi in un senso di civiltà e quanto forte è nell’uomo la pulsione di morte, quella pulsione che si oppone alla pulsione di vita, a quella tendenza insita nell’essere umano che lo fa essere contemporaneamente vittima e artefice della propria “felicità”. Felicità che per l’unica vita che ci èconcesso di vivere dovrebbe essere un diritto per tutti. Diritto che riuscivo a difendere solo se riusciamo ad aprire glia occhi e vedere l realtà per quella che è e dare forza a quella straordinaria capacità umana di dare vita, la capacità di rispettare le  “radici” dell’esistenza umana . “Radici” è un termine dai significati profondi che rimanda a contenuti simbolici  come nutrimento, ancoraggio, vita. Radici è anche la storia narrata nel romanzo di Alex Haley, autore afroamericano, che narra la storia della sua famiglia a partire dalla vita travagliata del  giovane Kunda Kinte della tribù dei Mandinka. Tribù che ha rappresentato per il giovane deportato la base sicura a cui, seppur solo con la mente, approdare per trovare pace, serenitàe forza. La storia di Kunta Kinte, solo apparentemente tanto lontana dalla società 2.0, è la storia della “schiavitù” di ogni epoca  che celebra la malvagità umana. Malvagità che fa di noi uomini, esseri capaci di rendere i nostri simili degni di incontenibile  violenta dominazione. Dominazione che da vita al bisogno di sopraffazione che ci fa sentire vivi attraverso una fallace unicità e supremazia. L’altro tanto lontano, diverso e pure incredibilmente vicino e uguale. Uguale è in ogni epoca e in ogni luogo la forza trasformatrice della competenza emotiva che fa la differenza. La competenza emotiva ci permette di togliere le catene ai piedi di Kunta Kinte, le stesse catene che legano, prima di tutto, i nostri piedi e non ci fanno “andare verso” l’altro. Catene che immobilizzano le nostre mani, che serrano la nostra bocca, che chiudono i nostri occhi e  che tappano le nostre orecchie .
Maura Ianni

Maura Ianni, Psicoanalista, Docente Psicologia Generale Università Tor Vergata Roma, Docente Teorie e tecniche delle dinamiche di gruppo APA, Chieti

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