“Lavorare in un pronto soccorso è difficile, sembra un far west”. La testimonianza di un infermiere del pronto soccorso del Policlinico di Tor Vergata

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Un far west. E’ quanto stanno diventando i pronto soccorso in Italia. Sia per i cittadini che per gli operatori sanitari. Ogni giorno è come vivere in trincea. Chi è in prima linea si trova ad affrontare e vivere situazioni emergenziali al limite del sostenibile. Sia fisico che morale. Chi lavora in prima linea non è un automa ma una persona che vive in simbiosi le emergenze che si affrontano in un pronto soccorso. In questo caleidoscopio capire come vivono medici ed infermieri queste situazioni di emergenza, spesso drammatiche, ci danno uno spaccato di vita ai più sconosciuta. E fondamentali per comprendere cosa significa lavorare in prima linea. In questa intervista esclusiva infermiera di pronto soccorso presso il Policlinico di Tor Vergata, ci racconta come l’esperienza di accogliere una vittima di violenza richieda una sintesi di competenze, sensibilità e dedizione straordinarie di un infermiere, che potrebbe essere Maria, Anna, oppure Nicola, Francesco, non ha importanza il nome, il sesso, anche se al giornalista è tutto noto. E ne esce uno spaccato che porterà a riflettere tutti

“Accogliere una donna vittima di violenza in pronto soccorso è una sfida che richiede competenza e grande sensibilità”. Qual è il ruolo dell’infermiera in pronto soccorso quando ci si trova difronte a questo tipo di criticità?
“L’infermiera è il primo contatto per una donna che arriva in pronto soccorso dopo aver subito violenza, e il nostro compito è estremamente delicato. La paziente ha bisogno di sentirsi accolta e protetta, di percepire che si trova in un ambiente di fiducia e che non è sola. Il nostro ruolo va ben oltre l’assistenza clinica: dobbiamo bilanciare il lato tecnico con un approccio umano che rispetti la sensibilità della paziente. In queste situazioni, ogni gesto, ogni parola, può influenzare la percezione della donna e determinare il modo in cui vivrà questo percorso. A volte la paziente non dichiara di aver subito violenza ma è l’occhio attento e preparato dell’infermiera che l’accoglie ad evidenziare le violenze e spesso a dover affrontare le resistenze della donna ad ammettere il fatto”

Quali sono le procedure a cui viene sottoposta una vittima di violenza e come possono influire su di lei?
“Il protocollo clinico prevede una serie di procedure necessarie, ma che possono essere percepite come invasive. La paziente deve sottoporsi a vari esami per documentare le lesioni subite, compreso un esame ginecologico obbligatorio per raccogliere prove utili in sede legale. Questo è un passaggio fondamentale, perché ogni dettaglio può essere determinante per una denuncia, ma è anche molto difficile per la paziente, già segnata dall’esperienza vissuta. L’iter include lo spogliarsi per imbustare gli indumenti a scopo di eseguire le indagini forensi e le visite successive, spesso sono percepite dalla donna come intrusione nella propria intimità. Come infermiere, è nostro compito spiegare con chiarezza ogni passaggio alla paziente, per evitare che questa procedura la faccia sentire un oggetto del processo e del percorso anziché protagonista di un percorso di assistenza pensato per lei.”

Ci sono protocolli specifici per gestire il supporto psicologico?
“Assolutamente, ed è una parte fondamentale dell’intervento. Il protocollo prevede il coinvolgimento immediato di uno psicologo per supportare la paziente fin dal primo momento. Questa presenza è essenziale, perché le procedure cliniche, per quanto necessarie, possono risultare traumatiche. Lo psicologo è lì per aiutare la paziente a gestire l’ansia, il dolore, e soprattutto per creare un ambiente in cui lei possa sentirsi al sicuro e compresa. Lavoriamo in sinergia, medici e psicologi, per rispettare lo stato emotivo della paziente e garantire che il percorso in pronto soccorso non diventi un ulteriore trauma da superare.”

Quali sono le sfide principali che voi infermieri affrontate in queste situazioni?
“Uno degli aspetti più impegnativi è legato all’orario di lavoro. Se un’infermiera inizia l’accoglienza di una paziente vittima di violenza a fine turno, è obbligata a restare fino alla conclusione del percorso di assistenza e presa in carico. È una responsabilità che prendiamo con grande serietà, perché sappiamo che la continuità dell’assistenza è fondamentale per la paziente. Tuttavia, questo significa che l’unità di pronto soccorso si trova con una risorsa in meno per tutto il tempo necessario a completare la procedura. Questa situazione comporta un impegno emotivo e fisico notevole, sia per chi resta a coprire le altre emergenze sia per l’infermiera che si dedica alla paziente vittima di violenza, che non può lasciare il suo turno fino al termine del protocollo. È un sacrificio che facciamo, ma che evidenzia la necessità di maggiori risorse e di una migliore organizzazione”.

Quali miglioramenti ritiene necessari per l’accoglienza delle vittime di violenza?
“Penso sia indispensabile un maggiore investimento in risorse e personale formato. Gli infermieri e i medici devono spesso fare i conti con turni estenuanti e carenze di risorse, che rendono a volte difficile garantire il supporto emotivo a chi ne ha bisogno. La formazione specifica per la gestione di questi casi andrebbe potenziata, perché il supporto psicologico è altrettanto essenziale quanto l’intervento clinico.”

Come vede il futuro del sistema sanitario in questo ambito?
“Spero che si sviluppi un sistema più umano e rispettoso, che non si limiti alla raccolta di documentazione clinica, ma consideri anche il benessere psicologico della paziente. È necessario lavorare su protocolli e sulle procedure che, pur mantenendo la loro funzione legale e clinica, possano essere meno invasivi e più rapidi. Investire in personale qualificato e in protocolli per le vittime di violenza rappresenterebbe un progresso fondamentale per garantire a queste donne un’assistenza che sia al tempo stesso rigorosa e rispettosa della loro dignità.”

Le parole di questo operatore sanitario illuminano la complessa realtà degli infermieri di pronto soccorso, che ogni giorno bilanciano l’esigenza di efficienza clinico assistenziale con la necessità di empatia verso le pazienti in condizioni di vulnerabilità estrema. La testimonianza dell’infermiere intervistato richiama con forza la necessità di un sistema che, nei casi di violenza, riesca a conciliare rigore previsto dalle procedure medico-legali e attenzione alla fragilità della paziente, affinché il pronto soccorso diventi non solo un luogo di cura, ma anche un luogo di rispetto, accoglienza e sicurezza. Questo a garanzia di tutti i cittadini che hanno il diritto di avere una risposta tempestiva e adeguata nei momenti di emergenza-urgenza che sono i più difficili da affrontare anche emotivamente perché inaspettati.

V.A. Eu.Ber.

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