Matteo Renzi: ‘Giorgia Meloni?  Deve dimettersi se perderà il referendum costituzionale’

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Si parla di premierato e di un potenziale referendum costituzionale. Matteo Renzi non le manda a dire alla Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni. Su X, il politico toscano non ha risparmiato “critiche” e “consigli” alla Premier invocandone le dimissioni in caso di esito negativo della votazione che rappresenterebbe un fallimento del governo.

Tramite X, il leader di Italia Viva ha detto: “Un consiglio alla Meloni sul referendum da un esperto della materia. Se Giorgia Meloni perderà il referendum costituzionale dovrà andare a casa. Comunque. Lei sembra confusa. Ieri dice: o la va o la spacca Oggi dice: se perdo non mi dimetto, chissenefrega. Non è così, cara Presidente I Referendum su progetti proposti dal Governo portano comunque alle dimissioni del primo ministro, in tutto il mondo. Che il premier voglia o no. Anche David Cameron nel 2016 disse che non si sarebbe dimesso in caso di sconfitta ma fu costretto a lasciare Downing Street appena furono ufficiali i dati della Brexit”.

L’ultimo ad avere successo, quattro anni fa, è stato quello sul taglio dei parlamentari. Mentre per trovare un altro esito positivo bisogna andare indietro fino al 2001. Sarà anche per questo che il referendum costituzionale, negli ultimi anni, è diventato una bestia nera per i governi di sinistra, centro e destra

Matteo Renzi, che proprio per un referendum costituzionale fallito nel 2016 mise fine alla sua esperienza a Palazzo Chigi.  Costituzione alla mano, nulla impone a un presidente del Consiglio di lasciare palazzo Chigi in caso di fallimento di un referendum costituzionale promosso dal suo governo. L’unica conseguenza diretta di un “no” è che la Carta rimane così com’è, e il progetto di modificarla dev’essere riposto nel cassetto. Per cambiare la Costituzione infatti, a norma dell’articolo 138 serve una procedura speciale. Che prevede: due sì di entrambi i rami del Parlamento a distanza di almeno tre mesi e il voto favorevole dei due terzi dei membri di Camera e Senato.

Se quest’ultima condizione manca (e dunque se ad esempio la modifica viene approvata soltanto da una maggioranza assoluta dei deputati e senatori) si può sottoporre il progetto di riforma al voto degli elettori, tramite referendum costituzionale. Un procedimento diverso dal  referendum abrogativo perché non è previsto alcun quorum: l’esito favorevole o sfavorevole è valido qualunque sia la percentuale degli aventi diritto che si reca alle urne. 

Ecco perché per chi lo propone il referendum costituzionale si trasforma spesso in un azzardo politico: a differenza di quello abrogativo, non è possibile far leva sulla “distrazione” o contare sullo scarso interesse degli elettori per far naufragare il progetto di riforma in questione. Ma data la complessità delle questioni che spesso vengono trattate, succede a volte che nell’opinione pubblica e nel racconto che ne viene fatto il referendum si trasformi  in un giudizio di gradimento sul governo e sulla maggioranza che lo ha proposto e votato in Parlamento.

Nel caso del referendum del 2016 (quello sul ddl Renzi-Boschi con cui si puntava a superare il bicameralismo riducendo il ruolo del Senato) il voto fu ulteriormente politicizzato dal messaggio del premier Renzi: «Se sarò sconfitto mi dimetterò». Ecco perché Renzi – ma l’ex premier non è l’unico – sostiene che in caso di bocciatura del premierato al referendum anche Giorgia Meloni dovrebbe lasciare. Il no a una modifica della Costituzione di così vasta portata, che la leader di FdI ha più volte indicato come la vera riforma per far ripartire il Paese dando più stabilità ai governi e impedendo ribaltoni, potrebbe significare uno scossone poderoso a tutta l’azione dell’esecutivo. Che non avrebbe più la “fiducia” dell’elettorato. E che dunque politicamente entrerebbe in seria difficoltà.

Ma non si tratta di una regola aurea, come dimostra un’altra consultazione costituzionale respinta, quella sulla devolution del 2006. A promuovere il referendum in quel caso fu il terzo governo di Silvio Berlusconi, su spinta della Lega e dell’allora ministro delle riforme Calderoli. La revisione prevedeva, oltre a un maggiore potere per le Regioni, anche il superamento del bicameralismo e maggiori poteri per il presidente del Consiglio, un premier che avrebbe potuto nominare e sfiduciare i propri ministri in autonomia. Anche in questo caso gli elettori, con il 61%, dissero no (l’affluenza si fermò al 52%). Il governo non si dimise, ma di lì a poco si sarebbe comunque andati alle urne per la scadenza naturale della legislatura.

Due sono stati, nella storia della Repubblica, i casi di referendum costituzionale riusciti. L’ultimo, nel 2020, quello sul taglio dei parlamentari promosso dal Movimento 5 stelle: da 630 a 400 alla Camera e da 315 a 200 al Senato. Gli elettori, con quasi il 70% (e un’affluenza al 51%) votarono per il sì. L’altro caso di successo è datato 2001, per il referendum sul titolo V della Costituzione promosso dal centrosinistra dei governi Prodi, D’Alema e Amato. I sì furono il 64%, ma con un’affluenza ancor più bassa: alle urne andò poco più di un terzo degli aventi diritto.

Renzi ha proseguito: “Il mio consiglio alla Meloni è semplice: anziché preoccuparsi per la sconfitta, preoccupati di cambiare la riforma Casellati. Così non funziona. Non va. Se insiste su questa riforma che non sta in piedi e va al referendum, lo perde. E se lo perde va a casa. Potrà andare a casa come ha fatto Renzi o potrà andare a casa come ha fatto Cameron. Ma comunque andrà a casa. Perché quando un Governo perde un referendum, diventa una sfiducia politica del Paese al Governo. E politicamente parlando non basta avere la fiducia del Parlamento. O la va o la spacca? La spacca, Giorgia, la spacca“.

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