Caro Direttore, il dado è tratto. Ora che Giorgia Meloni è passata da Tolkien ai grandi della finanza mondiale oltre che ai venti di guerra e alle nuove tasse di Giorgetti deve guardare con attenzione la vicenda UniCredit-Commerzbank, che apre un bel risiko bancario non più solo domestico.
L’ad Andrea Orcel, dopo aver dato buca al precedente governo Draghi e alla stessa Meloni sull’acquisto del Monte dei Paschi di Siena, ha lanciato infatti il dado e ha messo un piede in Germania, accingendosi a creare un colosso finanziario europeo che, seppur necessario, potrebbe procurare alla nostra premier un dispiacere. Più grande di quanto si possa immaginare e, soprattutto, molto più «sottile». Nel senso che coloro che hanno dimestichezza con la politica tedesca sanno che Berlino è pronta a trattare con UniCredit e l’ad della seconda banca italiana non potrebbe chiedere di meglio, ma alla politica romana verranno offerti solo zuccherini: il quartier generale resterà a Milano e il titolo rimarrà quotato in Italia, tuttavia la vera «ciccia» dell’affare sarà fuori dai nostri confini. Orcel sembra determinato a liberarsi dall’esposizione al debito pubblico italiano, di cui UniCredit è un grande sottoscrittore e distributore. Il carattere spigoloso dell’ad è noto nel sistema finanziario, da Ubs a Merrill Lynch, e in passato lo avevano ben misurato anche il presidente Draghi e il suo fido scudiero Francesco Giavazzi.
Addirittura Moody’s ha dichiarato di essere pronta a rivedere il rating di UniCredit, portandolo persino al di sopra di quello del debito sovrano italiano. Come a dire che gli piace l’idea di un UniCredit meno tricolore.
Nel frattempo al Quirinale c’è chi veglia attentamente, ben consapevole della portata di questa operazione, per certi versi, più sovranista nel senso di difesa della Nazione- dei sovranisti. È chiaro che, per affrontare una sfida di questo tipo, serve una politica nazionale coordinata. Il sistema bancario tradizionale non può più essere la soluzione: occorre creare un polo integrato con il settore assicurativo che, idealmente, non dipenda solo dalle consolidate dinamiche italo-francesi, peraltro quasi sempre a sfavore dell’Italia. Dopo anni di discorsi vuoti sulla cosiddetta «banca-assicurazione», emergono finalmente realtà come quella di Intesa Sanpaolo di Carlo Messina, capace di integrare, a differenza di altri, i servizi assicurativi con successo. Nel panorama di investimenti sempre più orientati all’estero, c’è anche Sace, guidata con piglio fermo da Alessandra Ricci, che gioca un ruolo cruciale nel sostenere l’export italiano con garanzie e programmi di accompagnamento verso mercati ad alto potenziale.
La vicenda UniCredit-Commerbank, insomma, non è più solo italiana. Il risiko bancario sta contagiando l’Europa, con una Germania frammentatissima e una sovrabbondanza in tutta l’Ue di istituti bancari che rendono inevitabili le fusioni. Mentre UniCredit sta concentrando le sue truppe a Berlino, la visione delle banche italiane appare sempre più miope e superata. Ormai non si tratta più solo di banche, ma di settori che si intrecciano con tecnologie che in breve tempo stanno ridisegnando le quote di mercato sul risparmio gestito, mutui e pagamenti. Nel contesto della concentrazione paneuropea, mentre la Francia consolida l’asset management di Axa sotto Bnp Paribas, i tentativi italiani di risolvere la situazione intorno a Mps sembrano sempre più provinciali. Tutti sordi al fatto che Mps è un problema che richiede un intervento rapido e concreto e definitivo. Il tempo sta scorrendo e ogni ritardo non fa altro che rivelare la fragilità della conduzione dell’amministratore delegato Luigi Lovaglio, facendo emergere che, sotto la patina del suo storytelling cantato e suonato, si cela una grande incertezza. Finito l’effetto dei tassi, del taglio dei 4.500 e più dipendenti, dovuto alle risorse iniettate dal Mef e del buon fato che ha risolto le vecchie vicende giudiziarie liberando gli accantonamenti «monstre» che avevano zavorrato la banca più antica del mondo, il re ora rischia di rimanere nudo. Lovaglio, settantenne «coccolo» dell’ex dg del Tesoro Alessandro Rivera, non ha mai dato prova di avere doti visionarie: la sua strategia si basa sul controllo paranoico dei costi nonché sulla chiusura dei rubinetti del credito. Si presenta come il salvatore della banca senese, ma sembra essere supportato più da una sapiente macchina di pubbliche relazioni che da risultati meritati. E il ministro Giorgetti – che, con tocco velenoso, ha da poco ricordato che i successi di Mps sono frutto di circostanze fortuite – ha sempre più fretta di trovare una soluzione industriale. Per questo ha delineato un piano di riordino del sistema bancario italiano intrecciato con le recenti mosse di UniCredit che, dopo aver puntato a rafforzare la propria presenza in Germania con l’acquisizione di Commerzbank, sembra aver definitivamente messo da parte ogni interesse di conquista di Mps.
Insomma, il risiko allargato all’Europa dalla mossa di Orcel rende il futuro bancario in Italia sempre più incerto. Se UniCredit sposta il suo baricentro in Germania, il rischio per l’Italia è quello di ritrovarsi senza un vero secondo polo bancario, dopo Intesa. Ecco allora che l’operazione UniCredit-Commerzbank potrebbe influenzare anche in senso positivo il contesto bancario italiano, magari accelerando i tempi di un consolidamento domestico in cui Mps è giocoforza chiamata a svolgere un ruolo chiave. Giorgetti ha confermato che lo Stato procederà con cautela, cercando di ottenere le migliori condizioni di mercato e di massimizzare il valore della cessione. Tuttavia, non è ancora chiaro chi potrebbe essere il partner industriale ideale per una fusione.
La conquista tedesca di Orcel potrebbe dare il via ad una rivoluzione dell’intero sistema bancario italiano, dando a Giorgia l’ennesimo grattacapo. Forse nell’incontro della scorsa settimana con Larry Fink, l’ad di BlackRock, azionista sia di UniCredit che di Commerzbank, ha provato a trovare una soluzione «out of the box». Nel frattempo, la premier, per sicurezza, ha già soffiato sul dado della fortuna.