Nomine Ue, riflettori puntati su Giorgia Meloni, ostinatamente silente

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Il summit europeo apre ai lavori: e lo fa con una sessione sull’Ucraina a cui partecipa il presidente ucraino Volodymyr Zelensky. Ma è chiaro a tutti che il punto saliente dell’agenda riguarda i cosiddetti “top jobs” della Ue. Con i riflettori puntati sulla decisione che la premier Meloni prenderà sulle nomine europee: votare a favore. Astenersi. O votare contro il pacchetto dei “top jobs”. Non solo. Oltre ai ruoli apicali le trattative vertono anche sui commissari da assegnare ai vari Paesi. L’Italia chiede una vicepresidenza e un commissario con deleghe pesanti: da tempo si fa il nome del ministro per gli Affari europei Raffaele Fitto, che potrebbe trovare posto a Bruxelles come super commissario alla Coesione e al Recovery Plan. Al momento, però, la premier applica la regola del silenzio.

“Nessuno rispetta la presidente del Consiglio Giorgia Meloni e l’Italia più di me. È un malinteso: a volte servono delle piattaforme politiche specifiche per agevolare il processo, la posizione comune dei tre maggiori gruppi serve a facilitare il processo. La decisione spetta al Consiglio europeo. Non c’è Europa senza Italia, non c’è decisione senza Giorgia Meloni. Per me è ovvio”, dice il primo ministro Donald Tusk, arrivando a Bruxelles al Consiglio Europeo.

Dieci giorni fa lo stesso Tusk aveva indicato che i numeri per una maggioranza per la decisione sulle nomine sulla base dell’intesa dei tre partiti esiste senza Meloni. Le parole del leader polacco sono lette come un segnale distensivo nei confronti della premier italiana, non tali però da mettere in discussione la linea scelta da Ppe, Pse e liberali.

La decisione di sostenere un secondo mandato per von der Leyen è stata presa durante un accordo del Consiglio europeo, in cui sei negoziatori chiave hanno giocato un ruolo cruciale. Tra questi, il primo ministro greco Kyriakos Mitsotakis e il primo ministro polacco Donald Tusk per il Partito popolare europeo (PPE) di von der Leyen, i socialisti rappresentati dal cancelliere tedesco Olaf Scholz e dal primo ministro spagnolo Pedro Sánchez, e i neoliberisti rappresentati dal presidente francese Emmanuel Macron e dal primo ministro uscente olandese Mark Rutte. Von der Leyen aveva precedentemente mostrato interesse a includere i Conservatori e Riformisti europei (ECR) guidati dal primo ministro italiano Giorgia Meloni in una coalizione, proposta che è stata però respinta dai socialisti e liberali.

Questi ultimi hanno infatti richiesto l’esclusione della Meloni dai colloqui come condizione per sostenere la rielezione della von der Leyen. Il primo ministro ungherese Viktor Orbán ha fortemente criticato questi negoziati chiusi.   Orban tuona contro l’intesa sui top jobs («gli elettori europei sono stati ingannati. Il Ppe ha formato una coalizione di bugie con la sinistra e i liberali. Non sosteniamo questo accordo vergognoso»).  

 Tajani – anche lui del Ppe – afferma che nessuna decisione è stata ancora presa sulla posizione dell’Italia e invita ad un accordo con i Conservatori di Meloni e non con i Verdi.

Il nostro ministro degli Esteri si è detto «molto perplesso» sull’ipotesi di assegnare un mandato di 5 anni al socialista Costa come presidente del Consiglio europeo, «perché il Ppe ha vinto le elezioni. Non le hanno vinte né i socialisti né i liberali». Pertanto, ha aggiunto il titolare della Farnesina, «se Antonio Costa vuole rimanere fino alla fine della legislatura», allora Roberta Metsola, presidente del Parlamento europeo e membro dei popolari, «deve a sua volta rimanere» presidente del Parlamento «fino alla fine della legislatura».

Subito prima del via ai lavori del Consiglio europeo, chiamato a decidere le nomine apicali dell’Unione, c’è una squadra determinata che si posiziona e fa quadrato intorno all’Italia e a Giorgia Meloni su cui si concentrano in queste ore i riflettori. C’è grande attesa sulle decisioni della premier che ha preso le distanzda una “logica dei caminetti” ad excludendum, che scavalca la logica del consenso facendo calare nomine e investiture scelte aprioristicamente nelle stanze decisionali.

Una situazione che, al momento, vede i leader del “caminetto” che si sono accordati sui “top jobs”, alle prese con un tentativo in extremis di smorzare le polemiche sull’esclusione dell’Italia dalla discussione. E un’attenzione riservata a Giorgia Meloni, che punta soprattutto su due ordini di ragioni. La prima: la presidente del Consiglio italiana vanta una schiera di 25 eurodeputati che potrebbero risultare determinanti per il voto, a scrutinio segreto, in plenaria. Inoltre, la leader di Fratelli d’Italia è anche alla guida di Ecr, i Conservatori europei, terzo gruppo più numeroso nell’arco parlamentare europeo. Per non parlare del fatto che non è certo una novità come e quanto i Paesi partner abbiano a più riprese seguito la linea tracciata dal governo italiano su diversi temi in agenda a Bruxelles, a partire dalla gestione dei flussi migratori.

Una centralità del ruolo dell’Italia, che in queste ore molti leader europei si sono detti pronti a rilanciare, come dimostrato dal primo ministro polacco Donald Tusk, che appena arrivato a Bruxelles ha dichiarato con nettezza: «Non c’è Europa senza Italia, non c’è decisione senza Giorgia Meloni. Per me è ovvio».

E sulla linea del premier polacco si è schierato anche Rutte. Il premier olandese e nuovo segretario della Nato prova ad aggiustare il tiro delle prime dichiarazioni per far arrivare un messaggio di distensione verso l’Italia: «Roma sia ben rappresentata». Dichiarazioni in sintonia con quelle rilasciate da Manfred Weber, presidente e capogruppo del Ppe al Parlamento europeo: l’Italia, ha spiegato il tedesco, «è un Paese del G7, è uno dei principali Paesi europei. Apprezzo molto il contributo del governo italiano, sotto la leadership di Antonio Tajani e di Giorgia Meloni. Per questo il processo, cruciale, per tenere conto anche degli interessi italiani è fondamentale per l’Unione europea».

Anche il cancelliere austriaco Karl Nehammer, al suo arrivo a Bruxelles, ha speso parole di stima per Meloni: «Penso che sia importante includere bene l’Italia, in particolare la premier, in questo processo negoziale. Lo sostengo anche all’interno del Partito popolare europeo». Il premier italiano, ha aggiunto Nehammer, «è un primo ministro che ha intrapreso molte buone iniziative per l’Unione europea e per la sicurezza alle nostre frontiere esterne. Soprattutto se penso alla strategia per l’Africa, lei è un partner importante anche per l’Austria».

Due «no» e una astensione. Alla fine, Giorgia Meloni tira dritto e boccia, di fatto, quello che ha più volte definito un «pacchetto pre-confezionato» di nomine. Lo fa modulando il voto caso per caso: si astiene sulla riconferma della tedesca Ursula von der Leyen alla Commissione, mentre boccia il portoghese Antonio Costa al Consiglio e la estone Kaja Kallas come Alto rappresentante per la politica estera. Insomma, la premier tiene aperto un canale con il Popolari e con la presidente uscente della Commissione, mentre boccia i candidati di Socialisti e Liberali. Un voto che da un punto di vista pratico non incide, perché l’Italia da sola non ha potere di veto. Ma che è un segnale politico, perché arriva da un Paese fondatore dell’Unione e che è terzo per numero di abitanti. E che fino ad oggi non si era mai espresso in dissenso dagli altri partner europei in un passaggio tanto importante. Con un dettaglio: alla fine i candidati che Meloni boccia sono uno espressione di S&D e l’altro di Renew: Olaf Scholz ed Emmanuel Macron.

Il gruppo dei Conservatori, infatti, è riuscito con fatica a scavalcare Renew per numero di parlamentari. Ed è questo uno dei punti di forza del ragionamento della premier italiana quando contesta il metodo utilizzato da Popolari, Socialisti e Liberali nell’individuare i nomi dei candidati ai vertici delle istituzioni comunitarie. Non è un caso che sul punto abbia insistito anche mercoledì durante le comunicazioni alle Camere.

Passate le dieci di sera, i ventisette capi di Stato e di governo riuniti al tavolo del Consiglio Ue affrontano il nodo più delicato, quello dei top jobs. Una partita che la premier gioca in completa solitudine, perché per l’occasione i cellulari non sono stati ammessi nella sala come pure lo sherpa che solitamente accompagna i singoli leader. Dopo un pomeriggio caratterizzato da una girandola d’incontri e ripetuti confronti incrociati, Meloni entra nella riunione a porte chiuse con l’idea di dare un segnale. E, dunque, non dare il suo benestare a quello che ha più volte definito un «pacchetto pre-confezionato». Certo, sul tavolo della trattativa c’è anche il peso del portafoglio che sarà affidato al commissario italiano, che la premier continua a chiedere abbia anche l’incarico di vicepresidente esecutivo della Commissione. Di fatto un vice-von der Leyen. Sul punto, come sul perimetro del portafoglio economico, ci sarebbero stati diversi tira e molla nel corso della giornata.

Meloni, però, arriva alla partita finale portando sul tavolo esattamente le stesse perplessità che aveva alla partenza da Roma e ribadendo la sua «contrarietà al metodo seguito da Ppe, S&D e Renew». Su von der Leyen, spiegano fonti di Palazzo Chigi, ci si è astenuti «nel rispetto delle diverse valutazioni tra i partiti della maggioranza di governo», nell’attesa di «conoscere le linee programmatiche e aprire una negoziazione sul ruolo dell’Italia».

Ma va detto subito che siamo ancora al primo tempo di una partita destinata a protrarsi fino al al 18 luglio, quando la Plenaria del Parlamento europeo sarà chiamata a confermare la candidatura di von der Leyen. Fonti di Palazzo Chigi spiegano l’astensione nei confronti del bis di von der Leyen anche con la necessitò di tener conto delle «diverse valutazioni tra i partiti della maggioranza di governo» ovvero tra il vicepremier leghista Matteo Salvini che evoca il «colpo di Stato» e l’altro vice di Meloni, il forzista Antonio Tajani, che da vicepresidente del Ppe sostiene apertamente il secondo mandato di Ursula a Palazzo Berlaymont.

Ma la ragione principale è un’altra. Le stesse fonti vicine alla presidente del Consiglio ci tengono a far sapere che si attende di «conoscere le linee programmatiche» che presenterà von der Leyen e soprattutto l’apertura di «una negoziazione sul ruolo dell’Italia». Il gioco è a due adesso. Direttamente tra Ursula e Giorgia. Von der Leyen per essere eletta deve conquistare la maggioranza assoluta dei 720 deputati, quindi deve raggiungere almeno quota 361. Il voto è segreto e il rischio franchi tiratori è molto alto. Al momento la maggioranza che sostiene von der Leyen – Ppe, S&D e Renew – sfiora i 400 voti. Troppo pochi per stare tranquilli. Alla candidata presidente serve un paracadute. L’apertura ai Verdi potrebbe metterle contro una parte significativa del suo stesso partito, quella parte che guarda a destra, a partire dal presidente del Ppe Manfred Weber che assieme ad Antonio Tajani continua a perorare la causa di aprire ai Conservatori, il gruppo di cui fa parte Fdi. Meloni con i suoi 24 deputati quel paracadute può fornirglielo.

I riflettori, come anticipato, puntati sulla decisione che la premier Meloni prenderà sulle nomine europee. L’Italia chiede una vicepresidenza e un commissario con deleghe pesanti: da tempo si fa il nome del ministro per gli Affari europei Raffaele Fitto, che potrebbe trovare posto a Bruxelles come super commissario alla Coesione e al Recovery Plan. Al momento, come detto, la premier applica la regola del ‘silenzio’.

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