Per il presidente ucraino Volodymyr Zelensky il futuro è sempre più un punto interrogativo. L’unica certezza è la guerra, con una Russia che prosegue nella sua lenta e inesorabile invasione, i bombardamenti su tutto il territorio ucraino e Kiev che prova a reagire. Ma in questa tragica quotidianità l’elemento che più interessa e inquieta Zelensky e il suo entourage riguarda il futuro del conflitto. E in particolare il futuro del sostegno politico e militare a Kiev e alla sua resistenza.
Le elezioni europee, in questo senso, erano già state un campanello d’allarme importante. Perché al voto per rinnovare l’Eurocamera i partiti più scettici, se non apertamente contrari, sull’invio delle armi all’esercito ucraino hanno ricevuto una grande quantità di voti. Suggerendo così – nemmeno troppo velatamente – un aumento della frustrazione della popolazione europea nei riguardi del conflitto che da due anni e mezzo sconvolge il Vecchio Continente.
Ma il dibattito scatenato con il voto europeo si è poi consolidato e rafforzato con l’avvento di due altri elementi: i viaggi di Viktor Orbán e l’accendersi della campagna elettorale americana in vista del voto presidenziale di novembre. La “missione di pace” (così definita da lui stesso) del premier ungherese ha fatto capire che Budapest ha tutto l’interesse a sfruttare la sua posizione di “capitale” Ue in questo semestre di presidenza. E i viaggi di Orbán – a Kiev ma soprattutto a Mosca, Pechino e in Florida da Donald Trump – hanno messo in chiaro la volontà del magiaro di strappare un’eventuale posizione di mediatore e di proporsi come primo partner ideologico di Washington in caso di vittoria repubblicana.
Viaggi che hanno scatenato la furia delle istituzioni europee, preoccupate da un leader che sta sfruttando la sua presidenza di turno con un’agenda internazionale non in linea con le volontà di Bruxelles. Ma che allo stesso tempo hanno trovato l’apprezzamento proprio delle due grandi potenze extraoccidentali: Cina e Russia. Sul Cremlino i dubbi erano pochi sin dall’inizio.
Ma quello che conta, in questa fase, è soprattutto l’orientamento di Pechino. Come ha scritto l’agenzia Xinhua, il ministro degli Esteri cinese, Wang Yi, si è sentito al telefono con il suo omologo ungherese Peter Szijjarto sostenendo l’iniziativa di Budapest e spiegando che “tutte le parti dovrebbero raggiungere quanto prima un consenso sui princìpi di non espansione del campo di battaglia, di non escalation e di non soffiare sul fuoco per creare le condizioni per un cessate il fuoco e la ripresa dei colloqui di pace”.
E lo stesso Wang ha continuato auspicando di “raccogliere più forze che sostengono la pace, raggiungere un discorso più razionale e procedere verso una soluzione politica”. La posizione della Repubblica popolare, da sempre accusata di ambiguità e di sostenere (indirettamente) la Russia, conferma quindi che tra Orbán e Xi Jinping c’è una forte partnership anche sul fronte diplomatico.
Questo rapporto è ancora più interessante se si riflette su un altro dato: dal viaggio di Orbán sembra chiaro che, almeno in questo frangente, le posizioni di Trump e di Xi potrebbero paradossalmente coincidere.
Trump ha sempre fatto capire di non amare l’impegno statunitense al di fuori dei propri confini, a maggior ragione in guerre che non ritiene prioritarie per la propria sicurezza nazionale. The Donald, inoltre, ha promesso di risolvere il conflitto tra Russia e Ucraina ancora prima di sedersi nello Studio Ovale. E il vice scelto per la sua eventuale vittoria – quel J.D. Vance incoronato nella convention di Milwaukee – ha più volte rimarcato la sua contrarietà all’invio di continui fluissi di armi all’Ucraina, così come la volontà di Trump di rasserenare i rapporti con Mosca. Questa curiosa convergenza di interessi e di intenti tra Pechino e Washington potrebbe così portare a una situazione, al momento paradossale, in cui Cina e Stati Uniti potranno volere la stessa cosa: la fine del conflitto. E questo, nell’ottica di Zelensky, potrebbe anche dover dire accettare un compromesso che rischia di tradursi in una necessaria concessione in possibile un negoziato con Vladimir Putin. In qualche modo, Kiev sembra avere percepito questo probabile cambiamento di prospettiva. Come dimostrato dall’apertura del leader ucraino alla presenza di delegati russi nel prossimo summit per la pace. “Credo che debbano esserci rappresentanti russi al secondo summit”, ha detto Zelensky in conferenza stampa. Una possibilità che è stata riferita anche dal governo ungherese. E data la tradizionale chiusura del leader ucraino nei confronti dei negoziatori di Mosca, una dichiarazione di questo tipo potrebbe significare un primo segnale di apertura ma anche di cambiamento nella comunità internazionale.
La Russia non esclude un nuovo dispiegamento di missili nucleari in risposta al previsto stazionamento statunitense di armi convenzionali a lungo raggio in Germania. Stati Uniti in Germania, ha dichiarato il vice ministro degli Esteri Sergei Ryabkov. L’agenzia di stampa Interfax ha citato Ryabkov per dire che la difesa della regione russa di Kaliningrad, incuneata tra i membri della Nato Polonia e Lituania, è un obiettivo particolare. “Non escludo alcuna opzione”, ha detto Ryabkov ai giornalisti a Mosca quando gli è stato chiesto di commentare i piani di dispiegamento degli Stati Uniti. La settimana scorsa gli Stati Uniti hanno dichiarato che dal 2026 inizieranno il dispiegamento in Germania di armi che includeranno SM-6, Tomahawk e nuovi missili ipersonici, per dimostrare il loro impegno nella difesa della Nato e dell’Europa. Il mese scorso il presidente russo Vladimir Putin ha dichiarato che Mosca riprenderà a produrre missili terrestri a corto e intermedio raggio e deciderà dove collocarli in caso di necessità. La maggior parte dei sistemi missilistici russi può essere dotata di testate convenzionali o nucleari. Secondo quanto riportato da Interfax, Ryabkov ha dichiarato che la Russia sceglierà dalla più ampia gamma di opzioni possibili per elaborare la risposta più efficace alla mossa degli Stati Uniti, anche in termini di costi. Ha detto che Kaliningrad, la parte più occidentale della Russia che è tagliata fuori dal resto della sua massa terrestre, “ha da tempo attirato l’attenzione malsana dei nostri avversari”. “Kaliningrad non fa eccezione per quanto riguarda la nostra determinazione al 100% a fare tutto il necessario per respingere coloro che potrebbero avere piani aggressivi e che cercano di provocarci a compiere determinati passi che non sono desiderabili per nessuno e sono irti di ulteriori complicazioni”, ha detto Ryabkov.
Le promesse della presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen di creare “una vera e propria Unione europea della Difesa” in caso di vittoria di un secondo mandato, secondo il portavoce sono un segnale dell’orientamento dell’Europa verso la militarizzazione e il confronto. In un documento che illustra il suo programma Von der Leyen ha dichiarato che lo sforzo includerà progetti di punta sulla difesa aerea e cibernetica nei prossimi cinque anni. Il documento, dice Peskov, riflette le “mutevoli priorità” della von der Leyen e che le sue proposte danno una “colorazione militare” all’Unione europea. Peskov ha dichiarato ai giornalisti che la sua proposta “conferma l’atteggiamento generale degli Stati europei verso la militarizzazione, l’escalation della tensione, il confronto e l’affidamento a metodi conflittuali nella loro politica estera”. Peskov ha concluso osservando che, sebbene la Russia non rappresenti una minaccia per l’Unione europea, le azioni degli Stati membri nei confronti dell’Ucraina “hanno escluso qualsiasi possibilità di dialogo e di considerazione delle preoccupazioni della Russia. Queste sono le realtà in cui dobbiamo vivere, e questo ci costringe a configurare di conseguenza i nostri approcci di politica estera”.