Riarmo Europa e Giorgia Meloni: ‘Non comprare armi, ma costruire armi’

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La Commissione europea annuncerà oggi, mercoledì 19 marzo, il suo piano per mobilitare i 10mila miliardi di euro fermi sui conti correnti delle banche dei Paesi membri. Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, presenterà il piano per la riforma del risparmio europeo.

L’obiettivo è quello di muovere 10mila miliardi di euro fermi sui conti correnti. Si tratta del 70% dei risparmi al dettaglio dell’Europa, al momento bloccati da un mercato finanziario spezzettato.
Non è la prima volta che la Commissione europea tenta questa riforma. La spinta decisiva è arrivata però dal rapporto sulla competitività di Mario Draghi. Il documento ha fissato la cifra minima di investimenti necessaria per rendere l’Europa nuovamente all’altezza del resto dei colossi dell’economia mondiale: 800 miliardi di euro all’anno.

Per fare ciò: “La Commissione adotterà misure entro il terzo trimestre del 2025 per aiutare gli Stati membri a promuovere l’adozione di conti di risparmio e di investimento basati sulle migliori pratiche esistenti. Tali misure saranno accompagnate da una raccomandazione sul trattamento fiscale dei conti di risparmio e investimento” spiega il documento in cui è abbozzato il piano.

La ricchezza degli italiani è più di 5.216 miliardi di euro, 552 miliardi in più rispetto al 2019. Il 30% di questo denaro però è sui conti correnti. Questo significa che il 15% dei fondi che l’Ue vuole mobilitare si trovano in Italia. La cultura del risparmio gestito, benché in crescita nel nostro Paese, è ancora quindi molto limitata.

‘Il 6 marzo la Presidente von der Leyen ha presentato il piano “ReArm Europe”. Certamente oggi siamo chiamati a rafforzare le nostre capacità difensive, di fronte alle nuove sfide geopolitiche, alle maggiori responsabilità a cui veniamo richiamati in ambito NATO e alla necessità di rafforzare il ruolo dell’Europa in questo contesto.

Ma oggi, rafforzare le nostre capacità difensive non significa banalmente acquistare armamenti. Intanto, perché non si tratta di acquistarli, magari da Paesi stranieri, quanto semmai di produrli, rafforzando la competitività e sostenendo gli investimenti delle nostre aziende e del nostro tessuto produttivo. Ma, ancor prima, perché rafforzare le nostre capacità di difesa significa occuparsi di molte più cose, rispetto al semplice potenziamento degli arsenali.

Senza questo approccio a 360 gradi non c’è difesa. Senza difesa non c’è sicurezza. Senza sicurezza non c’è libertà, perché senza sicurezza noi non possiamo proteggere l’Italia, le sue imprese e i suoi cittadini. Quindi, quando abbiamo proposto di rinominare il piano utilizzando le parole, per esempio, “Defend Europe”, non abbiamo posto una semplice questione semantica o nominalistica, ma abbiamo proposto una questione di sostanza.

Un altro punto che mi interessa chiarire riguarda l’entità finanziaria del Piano. La Presidente von der Leyen ha indicato in 800 miliardi di euro la sua dimensione complessiva. Credo che sia molto utile precisare, a beneficio del Parlamento e ancor più dei cittadini che ci ascoltano, che questi 800 miliardi di euro non sono né risorse che vengono tolte da altri capitoli di spesa né risorse aggiuntive europee.

Anzi, sul primo punto, voglio ricordare che l’Italia si è opposta con fermezza alla possibilità che una quota dei fondi di coesione, risorse fondamentali per noi, venisse automaticamente spostata sulla difesa. È una battaglia che abbiamo vinto. Rimane la possibilità per gli Stati membri di utilizzare volontariamente una quota dei fondi di coesione, e approfitto per annunciare che l’Italia non intende distogliere un solo euro dalle risorse della coesione. Spero che almeno su questo possiamo trovarci tutti d’accordo.

Dopodiché, il Piano arriva a 800 miliardi di euro con due voci. La prima, 150 miliardi, dovrebbe corrispondere a prestiti che gli Stati Membri possono attivare, se reputano opportuno farlo, garantiti dall’Unione Europea. Si tratta cioè di eventuali prestiti su base volontaria, ma su questa misura ci riserviamo di dire di più quando avremo tutti i dettagli. La seconda voce, che vale 650 miliardi, è sostanzialmente teorica, nel senso che è la stima di quanto potrebbe cubare un ulteriore indebitamento nazionale se ciascuno Stato Membro decidesse di ricorrere a deficit aggiuntivo per massimo l’1,5%, al di fuori del vincolo della clausola di salvaguardia del Patto di stabilità e crescita. In sostanza, non si tratta di spendere 800 miliardi di risorse attualmente esistenti nei bilanci degli Stati Membri, magari tagliando servizi ai cittadini per poter reperire quelle risorse o smettendo di investire sugli altri capitoli. Si tratta invece della possibilità di ricorrere a deficit aggiuntivo, rispetto a quanto normalmente previsto dal Patto di stabilità.

Lascio quindi volentieri ad altri, in quest’Aula e fuori, quella grossolana semplificazione secondo cui aumentare la spesa in sicurezza equivale a tagliare i servizi, la scuola, le infrastrutture, la sanità o il welfare. Non è, ovviamente, così, e chi lo sostiene è perfettamente consapevole che sta ingannando i cittadini, perché maggiori risorse per la sanità, la scuola o il welfare non ci sono, attualmente, non perché spendiamo i soldi sulla difesa, ma perché centinaia di miliardi di euro sono stati bruciati in provvedimenti che servivano solo a creare consenso facile.

Far produrre armi alle aziende del comparto automobilistico italiano che da anni versano in situazioni di difficoltà economica e rafforzare così la difesa nazionale. È questo il piano con cui il governo di Giorgia Meloni intende intervenire in supporto delle fabbriche di auto e, in via derivativa, della propria potenza bellica. Un passaggio che è tipico di un’economia di guerra, con l’Italia che in realtà replica l’impostazione già scelta dal governo tedesco, anch’esso alle prese con aziende nazionali automobilistiche in profonda crisi. Per il ministro delle Imprese e del Made in Italy Adolfo Urso si tratta di un passaggio fondamentale, l’unico che permetterà all’Italia di governare “la nuova rivoluzione industriale”.

Per uscire da questa difficoltà e trarne anche vantaggio, l’Italia sulla scia della Germania pensa dunque alla conversione della produzione che possa essere funzionale al rafforzamento della difesa. “Un microchip già adesso può servire per un’auto o per un satellite – ha detto Urso – La scheda elettronica funziona sia in un veicolo urbano sia in un elicottero. Il cingolato muove un trattore come un blindato che tutela i nostri militari in Libano. Del resto – ha aggiunto – è una dinamica già in atto anche per alcuni grandi produttori di auto: Nissan ha avviato lo sviluppo di un rover lunare in collaborazione con l’agenzia spaziale giapponese, Toyota ne sta sviluppando uno con abitacolo pressurizzato, anche Audi ha costruito il suo Lunar Quattro partecipando al Google Lunar Xprize”.

Sono in molti, infatti, a sostenere che il maxi-piano di riarmo europeo annunciato da Ursula von der Leyen sia stato messo a punto con il fine principale di salvare le case automobilistiche tedesche.
Sui possibili incentivi europei al piano di riconversione Urso ha le idee chiare: “L’Europa si è posta come obiettivo di raggiungere almeno il 3 per cento di spesa sulla difesa e quindi sulla sicurezza, deliberando che le risorse impiegate siano scorporate dai calcoli del Patto di stabilità. È quindi verosimile – ha chiarito – che vi sarà un’accelerazione sugli acquisti e sugli investimenti di ciò che serve per tutelare la pace e la libertà nel nostro continente. Si tratta peraltro di settori dual use: un drone più servire a migliorare la tutela del territorio, efficientare l’agricoltura di montagna, trasportare merci ma anche a contrastare attacchi esterni senza esporre a rischio il personale”.

Per comprendere come l’assetto delle economie nazionali stia spostando il proprio baricentro sull’industria delle armi, l’Italia ha davanti a sé l’esempio calzante della Germania. Da quando è stato eletto Donald Trump alla Casa Bianca, il colosso tedesco delle armi Rheinmetall ha visto triplicare il proprio valore di mercato con la capitalizzazione della società (pari oggi a 55,7 miliardi) che ha superato – per la prima volta nella storia – quella del gruppo Volkswagen (54,4 miliardi). Dall’auto agli armamenti, in un “gioco” di equilibri degli Stati che mirano a farsi trovare quanto più preparati possibili a tutti i possibili scenari futuri.

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