Robert De Niro sul gangster ‘Donald Trump’. L’eredità che Biden lascerà al prossimo presidente Usa

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De Niro ha  criticato Trump per il suo atteggiamento da gangster. “Pensa di essere un gangster, ma non credo che i veri gangster lo rispetterebbero,” ha detto l’attore. Questo tipo di critica fa eco a commenti che De Niro ha espresso in precedenza, in cui ha paragonato l’ex presidente a un leader criminale che ignora le regole e l’onore, qualità che persino i veri malavitosi, secondo De Niro, possiedono in una certa misura.

De Niro ha espresso ripetutamente il suo disprezzo per Donald Trump, soprattutto durante la sua presidenza. Le loro visioni politiche e personali sono diametralmente opposte. Durante l’intervista alla CNN, De Niro ha sottolineato ancora una volta come non abbia alcun rispetto per Trump, affermando: “Questo tizio non ha le giuste intenzioni, e tutti lo sanno. È una follia.“

L’attore, famoso per i suoi ruoli da gangster in film come ‘Quei bravi ragazzi’ e ‘Il Padrino’, ha spiegato che anche nel mondo della criminalità esiste un codice d’onore, un concetto che, a suo parere, Trump non sembra comprendere. Secondo De Niro, l’ex presidente si comporta come se fosse al di sopra delle regole, cosa che lo rende, agli occhi dell’attore, ancora più pericoloso per la democrazia e per la società americana.

Robert De Niro non è l’unico a fare analogie tra Donald Trump e i gangster, ma la sua voce è una delle più iconiche e forti a Hollywood. Durante l’intervista alla CNN, l’attore ha messo in dubbio l’integrità di Trump e il suo impatto sulla società: “C’è un senso dell’onore anche tra i ladri, c’è senso dell’onore in qualsiasi cosa si faccia. Se non tieni fede alla parola e non fai la cosa giusta, a prescindere dalla professione che svolgi, vieni emarginato.“

De Niro ha ribadito che gli americani hanno bisogno di leader con le “giuste intenzioni“, come Kamala Harris, che ha descritto come una persona che, pur commettendo errori, agisce con onestà e integrità. Secondo lui, Trump rappresenta tutto ciò che non va nella politica moderna, e il suo ritorno alla Casa Bianca sarebbe un disastro per il Paese.

E’ importante vedere, ad oggi, le realtà socio-politiche che lascerà a gennaio 2025 il presidente Biden al nuovo presidente.

Biden, negli Usa, ha fatto proprie  molte delle proposte della sinistra, convincendo  il congresso ad approvare una serie di importanti leggi e riforme come, ad esempio, un piano da 1.900 miliardi di dollari per risollevare il paese messo in ginocchio dal covid, realtà che ha posto le basi per il successo dell’economia statunitense. Matthew Desmond, sociologo dell’università di Princeton, l’ha definito “l’intervento più importante del governo federale per le famiglie a basso reddito dai tempi di Lyndon Johnson”. Il piano comprendeva il child tax credit, un credito d’imposta per i figli che “ha portato la povertà infantile al tasso più basso della storia degli Stati Uniti” (scaduto nel 2021, il congresso si è rifiutato di prolungarlo).

    La più importante spesa per rinnovare le infrastrutture (1.200 miliardi di dollari) dai tempi del New Deal degli anni trenta, passata con il sostegno dei repubblicani.

    L’Inflation reduction act, il più grande investimento in tecnologia verde nella storia degli Stati Uniti (740 miliardi di dollari).

    Il Chips and science act, un provvedimento da 280 miliardi di dollari pensato per riportare la produzione di semiconduttori negli Stati Uniti ed espandere gli investimenti del paese in ricerca e sviluppo.

Al di là dell’enorme spesa complessiva,  che farà crescere il già enorme deficit statunitense, l’aspetto più rilevante del programma è la filosofia che c’è dietro: dopo almeno tre decenni in cui anche i democratici erano diventati allergici agli interventi del governo federale, Biden ha riaffermato l’idea che sia principalmente lo stato a doversi far carico dei problemi dei cittadini. Rientrano in quest’ottica anche gli interventi per dare alle agenzie governative il potere di negoziare i prezzi dei farmaci e per limitare il prezzo dell’insulina, così come i decreti per cancellare decine di miliardi di dollari di debiti universitari, poi bloccati dalla corte suprema.

Con le leggi pensate per stimolare la produzione di nuove tecnologie, inoltre, il presidente ha rispolverato l’idea novecentesca secondo cui serve un’ambiziosa politica industriale per affermare gli interessi statunitensi nel mondo.

Come tutti i suoi predecessori recenti, Biden non è riuscito a trovare risposte alla crisi migratoria al confine con il Messico. Dopo aver promesso una politica “umana” in risposta a quella crudele di Trump, si è scontrato con l’impossibilità di riformare un sistema disfunzionale e ha finito anche lui per adottare la linea dura.

Biden ha vissuto più dei suoi predecessori le conseguenze del declino globale degli Stati Uniti e, ciò che era sottotraccia con Obama e Trump è esploso, come  il ritiro caotico delle truppe statunitensi dall’Afghanistan, realtà che  ha mostrato al mondo la fragilità di Washington e rafforzato il fronte dei paesi che vogliono creare un ordine internazionale alternativo a quello guidato dagli Stati Uniti. C’è stata l’invasione russa dell’Ucraina, la Cina è diventata più aggressiva nei confronti di Taiwan e dei vicini, l’Iran più disinvolto nel colpire gli Stati Uniti e il loro alleati in Medio Oriente, e anche l’incapacità di Washington di condizionare il comportamento di Israele è in fondo un segnale della sua perdita d’influenza nella regione.

Le leve che gli Stati Uniti possono usare per condizionare gli affari internazionali sono più fragili che in passato, e chi prenderà il posto di Biden dovrà confrontarsi con questa realtà.

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