Togliere la fiamma tricolore a Giorgia Meloni e darla a Vannacci: il piano di Gianmario Ferramonti e Gaetano Saya

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Il generale Roberto Vannacci potrebbe presto fregiarsi del simbolo della fiamma tricolore. “Fregandolo” a Giorgia Meloni. Perché lui è «l’unico a esserne degno», secondo Gianmario Ferramonti,  ex  leghista, presidente della Confederazione delle Destre, che raccoglie una serie di sigle sovraniste,  tra cui anche quello del Movimento Sociale Italiano di Gaetano Saya, che vanta il diritto d’autore sulla fiamma e che si è rivolto alla Cassazione affinché ne venga negato l’uso a Fratelli d’Italia. Ponendo così fine a una lunga contesa legale e portando il risultato al “comitato” del generale Vannacci, che potrebbe presto fregiarsi del simbolo della fiamma tricolore, perché lui è ‘l’unico a esserne degno’,  secondo Ferramonti.

Facciamo chiarezza dipingendo i profili di Ferramonti e Saya, partendo da storie che parlano di grembiulini, compassi e paramenti. Una storia, insomma, di massoneria. Ferramonti è uno di quei personaggi vissuti sempre al confine della storia ufficiale e di quella «occulta» in Italia. Ufficialmente, infatti, è un imprenditore e politico di origine bresciana. Nel ’90 scende in campo con la Lega Nord e diventa amministratore della PontidaFin, cassaforte del Carroccio. Poi litiga con Bossi e fonda con il professore Miglio l’Unione Federalista. Nel frattempo partecipa alla creazione di Forza Italia, An e della Casa della Libertà. Non contento, prova a ricostruire la Dc con Giuseppe Pizza e, infine, partecipa alle ultime Europee nelle liste dei Popolari per l’Italia. Raccogliendo, invero, appena una cinquantina di voti nella circoscrizione Nord/Ovest.  Fin qui le vicende ufficiali. Ma Ferramonti è soprattutto il faccendiere che vanta legami strettissimi con massoneria e servizi che è entrato in buona parte dei misteri italiani degli ultimi anni. Senza – va però sottolineato – aver mai subìto una condanna giudiziaria. Ci andò vicino nel 1996, quando fu tra i 18 arrestati nell’ambito delle inchieste Phoney Money e Lobbyng aperte dal sostituto procuratore di Aosta David Monti e relative a una presunta organizzazione che riciclava denaro sporco sui mercati internazionali. L’inchiesta ebbe una certa eco mediatica perché ne furono sfiorati personaggi di primo piano come Silvio Berlusconi, Umberto Bossi, Roberto Maroni e, naturalmente, Licio Gelli, che a Ferramonti era legato da anni. Il polverone che si sollevò, però, finì con un nulla di fatto. Successivamente il nome di Ferramonti, sempre senza rilievi penali, spuntò sia nelle indagini su presunti dossieraggi ai danni di Romano Prodi, sia – è storia recente – nel crac di Banca Etruria. Sarebbe stato lui, sollecitato da Flavio Carboni, a suggerire a Pier Luigi Boschi, papà di Maria Elena, alcuni nomi per i ruoli apicali della banca che stava affondando. «Spinte» che, però, non avrebbero prodotto gli esiti sperati.  Inciampi che non hanno certo marginalizzato Ferramonti, che nella Capitale ha continuato a frequentare le persone che contano (politici, giornalisti Rai, imprenditori) e, qualche anno fa, si è dato anche da fare per sostenere l’ascesa di Trump, organizzando un tavolo a una cena della National Italian American Foundation, negli Usa.  In alcune interviste ha sempre negato di essere organico alla massoneria. Nel 2016 a ‘Il Fatto’ Ferramonti disse: «Io ho contatti con tutte le massonerie perché non appartengo a nessuna massoneria. E ho rapporti con tutti i servizi segreti perché sono libero, non appartengo a nessun servizio segreto. Di certo, sembra essere uno che i retroscena italiani li conosce. In un’altra intervista a Il Fatto, stavolta del maggio 2019, prima delle Europee, pronostica: «Questo governo (il “gialloverde”, ndr) non durerà a lungo, ma Mattarella non scioglierà le Camere. E il prossimo premier sarà ancora Giuseppe Conte. Senza la Lega, ma con ampie convergenze. Scommette?». Incredibile preveggenza.

Il Fatto Quotidiano racconta oggi che è anche finito in carcere nel 1996 per un’inchiesta su una truffa finanziaria.

Continua…

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