Veronica Gaido e il fluire dell’infinito: un nuovo modo di sentire il Punctum

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A Forte dei Marmi, la fotografia si trasforma in un’esperienza immersiva tra acqua, corpi e luce
Quando Roland Barthes, in La camera chiara, introduce il concetto di punctum, lo descrive come quell’elemento che ferisce, che interrompe l’armonia dell’immagine e cattura lo sguardo in modo inaspettato. Nella fotografia di Veronica Gaido, invece, a un primo sguardo sembra che il punctum sia assente. Le sue immagini sono fluide, rarefatte, avvolte in un’atmosfera di sospensione che sembra rifiutare ogni strappo visivo. Ma è proprio qui che si svela una nuova forma di punctum: non un dettaglio improvviso che trafigge, ma una tensione sottile e pervasiva che emerge lentamente, nel fluire della luce, nell’evanescenza dei corpi, nel movimento che sfida la fissità della fotografia.

Dal 19 aprile al 25 maggio 2025, il Fortino Leopoldo I di Forte dei Marmi ospita la sua nuova mostra, Fluire l’infinito, a cura di Beatrice Audrito. Un percorso in cui l’acqua e il corpo diventano elementi di una ricerca sul tempo, sulla metamorfosi e sulla relazione tra immagine e realtà.
Un punctum che non ferisce, ma dissolve

Le fotografie della Gaido non colpiscono con un dettaglio violento, con un contrasto improvviso o un elemento disturbante. Al contrario, il loro potere sta nella dissoluzione, nel modo in cui il soggetto sembra sfuggire allo sguardo proprio mentre si lascia osservare. “Un progetto inedito dove esploro la relazione tra l’acqua quale elemento universale e il corpo umano come custode di storie ed emozioni legate alla mia terra d’origine”, spiega l’artista.

Il percorso della mostra si sviluppa sui tre livelli del Fortino: al piano terra, Fluire l’infinito presenta una serie di opere in cui il mare diventa materia fluida, indistinta, quasi pittorica. Qui il punctum non è un particolare che emerge, ma l’effetto di un’immagine che sfugge alla definizione, che si fa percepire più con il corpo che con la vista. Ai piani superiori, Aphrodite esplora la trasformazione del corpo umano, mentre Through the View propone una visione astratta della città di Forte dei Marmi, dove le architetture si frammentano in una geometria di luce e ombra.

Il tempo come soggetto invisibile
La fotografia è tradizionalmente associata all’idea di fermare il tempo, di catturare un istante irripetibile. Veronica Gaido, invece, lavora con il tempo come fosse un soggetto invisibile, rendendolo protagonista attraverso la tecnica della lunga esposizione. Il suo obiettivo non è fissare, ma lasciar scorrere. E in questo scorrere si nasconde il suo punctum: l’immagine non è mai completamente afferrabile, il dettaglio non è mai nitido, ma resta sospeso in una dimensione intermedia tra realtà e percezione.

Veronica Gaido ha costruito la sua carriera esplorando questa tensione tra immagine e scomparsa. Nata a Viareggio nel 1974, ha lavorato tra fotografia artistica e ritrattistica, immortalando personalità come Andrea Bocelli, Joe Bastianich e Alfonso Cuarón. Dal progetto Atman (2012), nato tra India e Bangladesh, fino a Invisible Cities, presentato tra New York, Miami , Milano e Pietrasanta, la sua ricerca è sempre stata un’indagine sulla luce e sullo spazio.

Con Fluire l’infinito, la Gaido torna nella sua Versilia, ma con una visione ormai universale. Una mostra che invita il pubblico a lasciarsi trasportare, a smettere di cercare un punctum evidente per scoprire, invece, un punctum nuovo: quello che emerge dal tempo, dall’evanescenza, dalla capacità di perdersi nelle immagini.

Quattro domande a Veronica Gaido

La tua fotografia sembra rifiutare il concetto classico di punctum, ma allo stesso tempo ne crea uno nuovo. Pensi che il punctum possa essere non un dettaglio, ma un’assenza?

Conosco il concetto filosofico di punctum elaborato da Barthes, ma sinceramente non avevo mai pensato al mio lavoro in questi termini, grazie di avermelo suggerito. È interessante però notare come, nella mia fotografia, questo punctum non si manifesti attraverso un dettaglio improvviso o netto, ma proprio nella sua assenza, in una dimensione più delicata e sfuggente. Si tratta di un’emozione diffusa, una percezione che emerge lentamente, un’assenza che diventa presenza.
Con Fluire l’infinito cerco quindi una rilettura poetica del concetto originale di Barthes: non più un dettaglio che ferisce, ma una bellezza che lentamente si dissolve e riemerge, invitando chi osserva a un’esperienza sensoriale e contemplativa diversa, forse ancora più intima e personale.

Il tempo è un elemento chiave del tuo lavoro. Come riesci a restituirne la fluidità attraverso un mezzo, la fotografia, che per natura tende a fermarlo?

Per me il tempo non va fermato, ma lasciato scorrere liberamente. La fotografia di solito tende a bloccare il momento, ma io preferisco lasciare aperto l’obiettivo per catturare la fluidità e il movimento stesso della vita. Credo che la vera bellezza risieda proprio nel lasciarsi attraversare dagli eventi, nel permettere al tempo di fluire con tutto ciò che porta: momenti belli e brutti, gioie e sofferenze. La vita è un continuo attraversamento, ma la capacità di trattenere soltanto ciò che davvero conta, le cose importanti, è quello che ci rende umani. È proprio questo sentimento, così intimo e delicato, che cerco di esprimere con le mie fotografie.

Le tue immagini sembrano sempre sul confine tra reale e astratto. Come trovi l’equilibrio tra questi due mondi?

Questo equilibrio nasce da una sorta di danza che avviene durante lo scatto. Amo partire sempre dalla realtà, ma cerco di coglierla nel suo movimento, nella sua mutazione, lasciandola fluire liberamente davanti alla macchina fotografica. In questo spazio di libertà, il reale si dissolve nell’astratto e viceversa. Non cerco mai un’immagine perfetta o definita, ma piuttosto una sensazione, un’emozione che resti sospesa tra ciò che si riconosce e ciò che si può solo immaginare.
Per ricreare questa atmosfera così delicata ed evanescente uso spesso la luce naturale delle candele: a volte ne accendo più di trecento per realizzare un ritratto. Questa luce tremolante, fragile, mi permette di costruire un equilibrio visivo che vive di una continua tensione tra presenza e assenza, perfezione ed errore, visibile e invisibile. Così la fotografia diventa non solo immagine, ma pensiero filosofico espresso attraverso la luce, una riflessione profonda sulla fragilità e sulla straordinaria bellezza della condizione umana.

Dopo tante esperienze internazionali, cosa significa per te tornare a Forte dei Marmi con questa mostra?

Tornare a Forte dei Marmi significa tornare in un luogo che sento profondamente familiare. Qui, in Versilia, ho fatto le mie prime sperimentazioni fotografiche sin dall’adolescenza e ho cominciato a dar forma visiva ai miei pensieri più intimi. Fin da bambina, il mare è stato il mio rifugio: era il luogo dove potevo confessare le mie gioie e i miei dolori. L’acqua, così calmante e rassicurante ma allo stesso tempo irruenta e distruttiva, mi ha sempre affascinato per questa sua natura ambivalente .
Per me, le radici sono importanti, forse anche perché da piccola, per il lavoro di mio padre, abbiamo cambiato spesso città, e la Versilia è sempre stata l’unico luogo dove sentivo veramente di essere a casa. Oggi vivo a Milano da tanti anni, ma quello che più mi manca è proprio la presenza del mare. Tornare a Forte dei Marmi con questa mostra non è dunque solo un ritorno artistico, ma anche emotivo: è come ritrovare un pezzo essenziale di me stessa.


Barbara Lalle

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